di Paolo Borioni
Dichiarazioni come quelle di Trump sulla Groenlandia hanno per i danesi un effetto ansiogeno soprattutto perché, chiudendo presto la pace in Ucraina, egli potrebbe completare la marginalizzazione della NATO come dispositivo di sicurezza. La degradazione della Danimarca come fattore degno di nota nello scenario artico sarebbe appunto una delle prime conseguenze di ciò, nonché una delle nuove conferme storiche che alla lunga non è mai premiante per i paesi nordici partecipare ad imprese militari che acuiscono le tensioni fra le grandi potenze anziché alla distensione fra di loro. Del resto, le intenzioni del presidente eletto USA possono essere attribuite a molte e diverse ispirazioni, ma forse nessuno le richiama alla mente come Robert E. Peary, esploratore nordamericano ed ingegnere navale militare vissuto fra Otto e Novecento, critico sulle concessioni americane verso Copenaghen. Prima della sua morte, nel 1920, egli fu uno dei maggiori esploratori artici, soprattutto in Groenlandia, che oggi fa parte della “Rigsfælleskab”, la comunità del regno che comprende anche isole Fær Øer e Danimarca.
Secondo Peary gli USA nel 1916 non avrebbero dovuto acquistare le cosiddette “Indie Occidentali Danesi” poste nella zona caraibica, ma appunto invece la Groenlandia. L’avvenimento storico è pregnante perché ciò che spinse l’amministrazione USA a stanziare 25 milioni di USD per acquistare invece le colonie insulari danesi nei Caraibi fu un altro snodo geostrategico emerso nelle bombastiche espressioni di Trump in questi giorni: Panama e il suo canale, ultimato nel 1914. La prossimità al canale rendeva molto interessante il porto caraibico di Charlotte Amalie, sotto controllo danese, e l’acquisto divenne addirittura indifferibile poiché in piena prima guerra mondiale a Washington temevano che la Germania con un colpo di mano avrebbe appunto potuto aggiudicarselo.
Per fortuna, dalla loro i danesi avevano la perizia del ministro degli Esteri Eric Scavenius, che ben oltre i 25 milioni di USD ottenne in cambio delle tre isole caraibiche una dichiarazione in cui gli USA riconoscevano la sovranità danese sull’intera Groenlandia, ovvero non solo sui suoi territori coloniali meridionali ed occidentali occupati da circa duecento anni dai danesi. Ciò peraltro poneva la Danimarca al sicuro anche dalle pretese della Norvegia, che avendo ottenuto nel 1905 l’indipendenza dalla Svezia aveva subito evidenziato come nella parte orientale della Groenlandia presenze norvegesi avevano preceduto di secoli l’espansione coloniale danese. E questa, del resto, era avvenuta fra XVII e XVIII secolo con la compartecipazione proprio della Norvegia, allora parte dello Stato dinastico danese.
Le critiche di Peary alla scelta del governo di Washington erano innescate da considerazioni sulla incapacità danese di sfruttare appieno gli enormi potenziali minerari, geostrategici, marittimi del grande paese Inuit. Ma anche dalla deroga al principio per cui a latitudini americane (cui la Groenlandia appartiene o è molto prossima) avrebbe dovuto valere la dottrina Monroe del 1823: l’illegittimità nelle Americhe del colonialismo europeo, battistrada invece del controllo imperialistico USA. Per Trump sono suggestioni assai ghiotte, che paiono animare non solo il contenuto delle sue esternazioni, ma la sua terminologia. I precedenti storici infatti richiamano come le sue parole la pratica dell’acquisto, sospinta dal diritto geostrategico USA ad espandere unilateralmente le proprie linee di difesa, e giustificata dall’incapacità europea, specie danese, ma anche canadese, di contribuire decisivamente alla comune difesa atlantica. Sono insomma gli USA a “proteggere” Canada e Danimarca, nonché effettivamente la Groenlandia, da cui il diritto a fare da sé.
Questa baldanza unilateralistica si comprende ancora meglio aggiungendo che in effetti gli USA dal 1941 hanno più o meno sempre sviluppato una presenza militare in Groenlandia, e si può perfino sostenere essa sia stata loro richiesta. Mentre infatti i danesi si trovavano in patria sotto l’occupazione nazista, le autorità governatoriali Inuit chiesero agli USA (ancora per pochi mesi neutrali) di prevenire con la propria presenza che le truppe germaniche, ma anche semmai quella canadesi o britanniche che le combattevano, attuassero un’invasione. Quale migliore conferma della dottrina Monroe? In seguito, tale presenza militare non è mai stata messa in discussione dai governi di Copenaghen: infatti, l’unione di difesa nordica e neutrale proposta nel secondo dopoguerra dagli svedesi non fu accolta da Copenaghen ed Oslo, che aderirono notoriamente alla NATO. Il governo socialdemocratico guidato da Hedtoft, tipico intorno al 1950 di una fase squilibratamente atlantista della socialdemocrazia, utilizzò peraltro la base USA groenlandese di Thule per dissimulare una verosimile incoerenza rispetto a una condizione fondamentale dell’adesione nordica alla NATO: nessuna presenza militare e nucleare USA sul territorio danese o norvegese.
Oggi è in prospettiva destinata a tornare in primo piano l’autonoma soggettività degli Inuit di Groenlandia, più vicina alla decisione del 1941 di garantire la propria autonomia nel conflitto mondiale. Le recenti posizioni della ministra di Stato danese Mette Fredriksen rispetto alle ambizioni trumpiane sembrano rivelarlo appieno: mentre nel 2019 riguardo ad un’esternazione di Trump analoga a quella attuale era stata netta ed inequivocabile (“la Groenlandia non è in vendita, e il discorso finisce qui”) nei giorni scorsi Fredriksen è stata assai più circostanziata. L’ovvietà che la Groenlandia non sia in vendita è stata tuttavia contestualizzata nell’affermazione che sono i groenlandesi e decidere di non esserlo, e che comunque tutto verrà discusso a Nuuk, sede del governo autonomo. Solo a questo punto Fredriksen ha aggiunto che anche e forse soprattuto in questo senso l’interesse della Groenlandia è di rimanere nella “Comunità” con Danimarca e Fær Øer, per poi in quest’ambito meglio contrattare con gli USA (ma magari anche con altri) la natura e la portata della loro presenza futura in questa parte dell’Artico.
Ma quanto la Danimarca in questa fase può davvero aiutare il governo di Nuuk a farsi valere, e dunque convincerlo della permanente centralità del rapporto istituzionale con Copenaghen? Intanto, mentre nei 2019 Trump poteva ancora parere un caduco incidente elettorale, oggi non è più così. Soprattutto, la Danimarca si è molto esposta finanziariamente ed ideologicamente nella guerra contro l’Ucraina ed ora la presidenza Trump, visto l’annunciato disimpegno USA dalla guerra europea, la rende addirittura presenza scomoda. Il governo di Copenaghen può sperare da parte sua che le richieste di Trump nella zona artica possano divenire materia di baratto rispetto a non lasciare troppo scoperti gli alleati NATO del Baltico nell’ambito dei futuri accordi fra Washington e Mosca. A questo fine, ma più in generale a quello di rimanere un fattore importante della geostrategia artica, i danesi dipendono sempre più dagli elementi che negli Inuit di Groenlandia tendono ad una maggiore prossima autonomia, ma non ad una prona americanizzazione. Di cosa si tratta? Sostanzialmente di legami storico-culturali e di culture politiche. La popolazione autoctona è ad esempio molto legata alla monarchia di Copenaghen, ed in queste ore il leader del governo autonomo di Nuuk Múte Bourup Egede ha anche visitato re Fredrik, da poco succeduto alla madre Margherita II. Anche il legame religioso con la “Chiesa del Popolo” danese di tendenza luterana è pervasivo. In un futuro referendum sulla natura dell’indipendenza dalla “Comunità” guidata da Copenaghen queste suggestioni potrebbero pesare. Ci sono poi elementi più immediatamente incisivi, e ci pare del tutto ignorati dai resoconti dei media di questi giorni. Múte Bourup Egede guida il governo di Nuuk dopo la vittoria del proprio partito Inuit Ataqatigiit (traducibile con “Comunità Inuit” ovvero “degli uomini”, oltre il 36% dei consensi allE ultime elezioni). Si tratta di tipico indipendentismo socialista antimperialista, alla sinistra della socialdemocrazia Siumut (traducibile con “Avanti!”), secondo partito con il 30%. Egede governa dal 1921 con altri partiti indipendentisti e la sua vittoria è stata il risultato fra l’altro della forte opposizione delle popolazioni locali a progetti minerari (di compagnie cinesi e australiane) ritenuti solo temporaneamente remunerativi e invece permanentemente nocivi sul piano ambientale. È nell’ambito di questo contesto che la linea del governo autonomo di Nuuk (“non siamo in vendita ma siamo disposti a fare affari”) va interpretata. Le rilevazioni di opinione degli ultimi anni confermano quanto le culture politiche del paese esprimono chiaramente: il risentimento verso il passato colonialismo danese non impedisce di apprezzare tuttavia ancora il rapporto con Copenaghen più che quello possibile con gli USA. Anche perché il modello di welfare nordico, sostenuto fra l’altro da un contributo fisso di Copenaghen a Nuuk di quasi 4 miliardi di Corone (per nemmeno 60.000 individui), è certamente preferito rispetto al carattere disfunzionale della società USA, nonché al modo in cui gli USA hanno trattato e trattano le proprie popolazioni native.
Questo ci riconduce a quanto dicevamo in apertura: se queste sono le carte in mano a Copenaghen, l’attuale situazione del baltico e della regione artica costringe a giocarle in modo più ansiogeno, nonché probabilmente meno risolutivo, del passato e del possibile. Copenaghen teme con tutta evidenza che Trump, nella sua nota e del tutto comprensibile volontà di chiudere coi russi un accordo sull’Ucraina, possa così rendere del tutto trascurabile il peso dei danesi, procedendo poi senza riguardi per loro a curare la propria sicurezza nell’Artico. Insomma, oggi i danesi dipendono nella loro presenza artica maggiormente dalla volontà degli Inuit groenlandesi, e meno del passato dal proprio ascendente su Washington.
Un maggior equilibrio fra appartenenza NATO e impegno per un Baltico ed un Artico del disarmo avrebbe invece nei decenni passati reso inattuali le richieste USA, o avrebbe consentito di affrontare qualunque novità con ben minor timore che la dialettica fra processo di autonomia Inuit e protagonismo USA possa scalzare i danesi dall’Artico.
Un esempio di questo possibile equilibrio non troppo ideologicamente atlantista risale agli anni 1980: la socialdemocrazia danese portò allora il Parlamento di Copenaghen a dichiarare che le armi atomiche USA, non potendo essere presenti in territorio danese, non potevano essere nemmeno trasportate da navi militari nei porti del regno nordico. Furono anche questi atti di distensione dall’interno della NATO a condurre verso la distensione degli anni di Gorbachev. La fine della guerra fredda ha invece condotto ad una sorta di “disarmo del disarmo”, anziché, come avrebbe dovuto essere, ad una sua ancor maggiore pratica. La Danimarca ha per esempio non solo mutato atteggiamento internamente alla NATO, ma dal 2014 ha anche costruito la Joint Expeditionary Force, alleanza squisitamente militare attiva nel settore nordico e baltico, guidata dal Regno Unito e partecipata dai paesi baltici più ostili alla Russia, nonché da Svezia e Finlandia ancor prima che terminasse la loro neutralità (evidentemente già in declino). Insomma, nei passati decenni il contributo nordico alla distensione e semmai ad allargare la zona di neutralità disarmata fra NATO e Russia è venuto meno. Ne è risultata un’escalation di culture politiche e pratiche nazionaliste nella regione che oggi vede sempre meno legittimato il ruolo di un piccolo stato come la Danimarca in uno scenario crescentemente cruciale come quello Artico. A riprova del fatto che l’impossibilità degli Stati nordici di essere potenze, certificata da oltre due secoli, non lascia loro che una strada durevole: da neutrali come da alleati di grandi potenze, possono solo spendersi per la ricerca di equilibri non aggressivi e per una sicurezza condivisa. Sono questi i processi che possono legittimare una loro influenza persino maggiore del peso reale, mentre scelte opposte ne minano sia il ruolo globale sia quello regionale, senza affatto giovare alla loro sicurezza.
[Pubblicato su https://www.strisciarossa.it/le-minacce-di-trump-sulla-groenlandia-rischiano-di-marginalizzare-la-danimarca-ma-anche-la-nato-e-la-ue/ ]