Finestre

Finestre sul Mondo: le trasformazioni attuali dei Paesi europei e non.

Porto alla conclusione di queste celebrazioni del 78° anniversario
della Liberazione, qui a Melfi, il saluto affettuoso a tutti i melfitani della Fondazione intitolata a Francesco Saverio
Nitti (che ha tra i suoi soci fondatori anche l’Associazione di cittadini intitolata a Nitti di cui sono parte un centinaio di cittadine e cittadini di Melfi), ricordando ancora una volta in questa
occasione del 25 aprile non solo lo statista che fu Nitti, che arrivò a guidare il governo italiano in uno dei più difficili momenti della storia del ‘900, tra le insorgenze sociali del dopoguerra e soprattutto nella tenaglia costituita dal massimalismo di sinistra e
l’affermazione del fascismo a destra, ma ricordando l’alto prezzo che Nitti pagò per il suo, esplicito dall’inizio, antifascismo: la casa distrutta, le minacce anche qui in Basilicata, l’esilio con tutta la famiglia che durò vent’anni, il carcere nazista durante la guerra.
Per storie come questa, migliaia di queste storie, per il sacrificio di tanti italiani durante la Resistenza, il giorno della Liberazione è diventato costituzionalmente festa nazionale.
Dunque, la banda comunale che apre i cortei in tantissimi comuni italiani, i gonfaloni di istituzioni e associazioni democratiche, i sindaci che sfilano con la sciarpa tricolore insieme ai cittadini, non sono segni retorici, non sono una pura coreografia.
Sono il rito civile che la Repubblica ha immaginato, attraverso i costituenti, per non dimenticare e per trasmettere la memoria delle determinazioni della storia.
Dopo dittatura, guerra, occupazione, guerra civile, l’Italia e l’Europa riacquistano la pace e comprendono che una cosa è il valore della parola “nazione”, un’altra cosa è il rischio funesto della parola “nazionalismo”.
Come tutti voi anch’io ero nel corteo di oggi, come quello degli anni passati.
Percepivo simboli e compostezza, pensieri e memorie.
E vedevo ai balconi anche sguardi, talvolta partecipativi, talvolta silenziosi e inerti.
C’è un’Italia che partecipa; c’è un’Italia che sta alla finestra; c’è un’Italia che prende le distanze.
Nei cortei come nelle urne, nelle celebrazioni come nel dibattito pubblico, giovani e meno giovani rappresentano valori ma anche si astengono dal tenerne viva la memoria.
Ecco perché istituzioni e sistema educativo, insieme ai media, hanno il compito di tenere attive le condizioni per sapere, per valutare, per partecipare.
Aver sentito qui un attimo fa gli argomenti dei giovanissimi è incoraggiante, avere visto le scuole attive e creative attorno al tema della crisi delle libertà e dei diritti umani e civili nel mondo è confortante. Ma il dato di incomprensione, di astensione, di confusione sul senso della storia che ci circonda deve farci interrogare a fondo.
Abbiamo avuto notizia questa mattina – io ho potuto solo leggere frammenti riportati in rete, non tutto – della dichiarazione della presidente del Consiglio sulla “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Una dichiarazione in sé accettabile, che pare ancora con sfumature attorno non chiare (libertà non liberazione, patrioti non partigiani, eccetera). In
ogni caso che fa sperare almeno sugli elementi fondamentali un allineamento di posizione almeno di chi ricopre alte funzioni istituzionali.
Limiterò a due argomenti di testimonianza il senso di attualità del fare insieme “rito civile” non solo per dare corpo al pensiero collettivo, ma per rivivere il rischio, il coraggio, la visione di chi ha pagato alti prezzi per consentirci oggi la libertà di votare, scegliere,
discutere, dissentire.
C’è un episodio del dibattito in età repubblicana su fascismo e antifascismo che spiega con la comprensione di tutti la sostanza del problema storico. Vittorio Foa, esponente del Partito di Azione nel CLN, risponde al sen. Giorgio Pisanò, eletto nel gruppo del Movimento Sociale Italiano. “Vedi, la questione è semplice. Se vincevate voi io sarei finito in galera, ma siccome abbiamo vinto noi tu sei senatore della Repubblica”.
E su questa scia porto qui in conclusione la testimonianza di Maria Luigia Baldini Nitti – figlia di Nullo Baldini e nuora di Francesco Saverio Nitti – che è stata vicinissima alla creazione della nostra Fondazione di cui è stata presidente onoraria, incarcerata a Ravenna perché figlia del capo socialista della cooperazione italiana e poi in esilio a Parigi per lunghi anni, leggendovi alcuni passi di una sua lettera del 1983 al giornale Il Nuovo Ravennate in
risposta al consigliere comunale dell’MSI Gianguido Reggiani che l’accusava pubblicamente di discriminazione perché “non disposto – scriveva lui a quel giornale – a rinegare il passato
per opportunismo”.
Ecco la risposta della “Pimpa” (questo il suo popolare soprannome) all’esponente del Movimento Sociale:
“Per avere conosciuto sulla mia pelle il significato esatto della parola ghettizzazione (che lei usa) non accetterò mai che ogni persona umana non venga rispettata come tale e non goda
dei diritti civili. Questo qualunque sia la sua etnia, fede politica, religione. In questo senso non credo che lei possa considerarsi “ghettizzato”. Lei può girare per le vie senza vedere gente che scantona per non incontrarla. O conoscenti che fingono di non vederla e cambiano marciapiede. Lei può esercitare liberamente la sua professione di avvocato, allora che io – che pure mi ero laureata con la media del trenta e lode e tre lodi, di cui una in diritto civile, l’altra in diritto romano e ricevuto il premio “Vittorio Emanuele II” per la miglior tesi dell’anno nella facoltà di Giurisprudenza – non potei divenire procuratrice legale perché non
iscritta al fascio. Lei può viaggiare all’estero ogniqualvolta questo le piaccia. Io ebbi rifiutato per anni il passaporto e per tutti quegli anni girai, nel timore di un mio espatrio clandestino, continuamente seguita da un agente di polizia che mi sorvegliava a vista, entrava con me nelle case in cui mi recavo e fin dentro la stanza in cui ero, dormiva davanti alla porta della stanza d’albergo in cui soggiornavo e una volta pretendeva di entrare con me nello spogliatoio di una sartoria. Se questo non significasse mettere al bando della società, lo domando a lei. E al contempo mi permetto di farle presente che tali vessazioni non sono oggi esercitate verso sia pure un solo aderente al Movimento Sociale Italiano. Inoltre, lei è stato liberamente eletto.
Deputati e Senatori dell’MSI siedono nel Parlamento repubblicano, prendono parte alle sue commissioni. Nessuno dei diritti civili riconosciuti agli italiani dalla Costituzione vi viene negato e la parità dei diritti che ogni minoranza deve godere è oggi rispettata. Lei mi chiede se non ritengo che già troppo sangue italiano sia stato versato e da una sole delle parti. Le rispondo che non ho mai accettato il mito soreliano della violenza. Dalla violenza sono stata
vaccinata in gioventù, quando udii le grida di chi veniva selvaggiamente percosso e conobbi persone che poi vennero uccise da scherani fascisti. Per me la violenza, di qualunque colore si ammanti, è cosa abominevole ed è indice di quella mentalità fascista che esaltò, praticò ed insegnò la violenza gli italiani. Se ritengo che la situazione attuale del Paese richieda la collaborazione sincera e senza remore dei partiti politici smussando gli angoli di quanto li divideva, ritengo questo limitatamente ai partiti che accettano apertamente i principi della Costituzione repubblicana”.
Restano questi, a mio avviso, parametri validi di giudizio per la storia e per il presente. Per le vicende nostre interne e per le sofferenze di altri Paesi. In un epoca in cui persino una guerra ingiusta torna a mostrare che in Europa il diritto non ha debellato la violenza per sempre.

25 aprile 2023

[Fonte: http://www.associazionefsnitti.org/]

Una pagina di Franco Venturi suggerita da Dora Marucco.

Brano tratto da “F. Venturi - La democrazia in Italia. Note di uno storico” (testo pubblicato in traduzione russa 11 settembre 1984, ora in F. Venturi, Scritti Sparsi a cura di G. Franzinetti ed. Tortarolo, Torino Nino Aragno 2022, pp 429 - 430


In mezzo alle macerie del fascismo due pilastri restavano in piedi, malgrado la forte scossa impressa anche dalla resistenza, e cioè lo stato e la chiesa. Lo stato era addirittura spezzato in due, tra nord e sud, e una guerra civile ne era risultata. Eppure lo stato, la sua burocrazia, la sua lentezza, la sua inefficienza tornò immediatamente a galla, appena finita la guerra. Da monarchico divenne repubblicano, da strumento di dittatura si fece costituzionale. Ma per mille aspetti non mutò. L'epurazione degli elementi compromessi col fascismo fu del tutto insufficiente (anche grazie alle disposizioni volute da Togliatti quando era ministro della giustizia). Mancò qualsiasi tentativo di creare uno stato diverso e nuovo, di fondare scuole per i funzionari, fissare criteri di selezione e di controllo che non fossero quelli polverosi e corporativi del passato. Tutto lo sforzo della classe dirigente si concentrò sulla costituzione, questo palladio della libertà riconquistata. Costituzione effettivamente democratica, capace di garantire i diritti dei cittadini e dei gruppi, profondamente liberale, ma di cui ora, dopo quasi quarant'anni, scorgiamo chiaramente i limiti e i difetti. Il culto del diritto e delle sue forme, che la ispirò, nasceva da una naturale e sacrosanta reazione contro l'arbitrio fascista. Impedì tuttavia al legislatore e in genere alla classe politica italiana di guardare ad alcuni problemi sostanziali, i poteri del governo, la legge elettorale, la regolamentazione del diritto di sciopero, il carattere e i limiti dei sindacati - questioni tutte che furono rimandate al futuro della costituente e che attendono ancor oggi una risposta. Nell'atmosfera di entusiasmo della rivoluzione democratica parve si dovesse scegliere il più bel modello di costituzione, il più giusto ed elegante, dimenticando quanto difficile sia la democrazia nel mondo moderno, non tenendo presente abbastanza gli esempi della repubblica di Weimar, della terza repubblica francese, della repubblica spagnola. L'Italia si trovò presto ad essere, con le evidenti eccezioni di Israele e della Francia (e anche questo parve un momento piegare sotto il gaullismo) l'unico paese democratico del Mediterraneo. L'allargarsi ad altre nazioni della democrazia, negli ultimi decenni, è stato uno degli elementi essenziali che ha permesso la continuità democratica della vita politica italiana e la sua diretta ed attiva partecipazione alla comunità europea e, attraverso i suoi lavoratori, alla ripresa economica dell'Europa.

di Paolo Borioni

 

Prosegue da giorni la riflessione sull’ennesima strage di ragazzi perpetrata negli USA. Anche la differenza fra modelli sociali è stata considerata, più o meno fecondamente, come spiegazione del fenomeno. Io stesso, con pochi minuti di anticipo, vi sono stato coinvolto, e credo che, autocriticamente, il risultato del dibattito non sia stato del tutto soddisfacente.

 

(https://www.raiplaysound.it/audio/2022/05/Tutta-la-citta-ne-parla-del-26052022-45aa2230-3b34-4ab9-b418-f39c3effdb9e.html?fbclid=IwAR1PYhjzzzjq69nJWTWX1r4lcyyChuZ-rlR_DUbFWYFfOKMUhSF1kUT-YBs&fs=e&s=cl)

 

Per questo è bene chiarire che, per quanto il ricorso a fattori enormi come “i modelli sociali” possa essere interessante, è bene partire dai dati più concreti, come la forza di cui gode la promozione degli armamenti negli USA. Inoltre, evocare la “epopea del west”, oppure il maggiore individualismo nordamericano, rischia di cristallizzare tutto, a cominciare dalla storia, in qualcosa di sempre uguale, e non dinamico come sono le società e la storia. Occorrerà ricordare che ad esempio noi siamo stati una società molto più violenta di oggi (mentre attualmente abbiamo tassi di omicidi, anche di femminicidi, bassissimi), e che un paese come la Svezia lo è oggi molto più di qualche decennio fa, oltre ad essere molto più disuguale. Ci sono pochi dubbi che una diversa regolamentazione possa contenere enormemente l’eredità negativa del secondo emendamento, quello che in USA secondo alcuni deve continuare a consentire la libera circolazione delle armi. Ma, fra i valori costitutivi degli Usa, lo dico a rischio di sembrare paradossale, forse conta maggiormente il primo emendamento del secondo, ovvero quello sulla libertà di espressione  (“Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.”) rispetto a quello sulla libertà di portare armi (“A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed.”). A ben vedere il secondo, per quanto discutibile nel senso che può comportare contraddizioni con il monopolio della violenza degli Stati moderni, però non convalida necessariamente l’idea di una società violenta poiché individualista e refrattaria alla regolamentazione dello Stato. In effetti, nella “Kongeloven”, ovvero la legge seicentesca che regolava e sanciva la società dell’’assolutismo monarchico danese, spiccava il principio per cui “Solo il re ha il potere delle armi”. Ma è bene chiarire che ciò significava soprattutto espropriare i nobili del potere politico-militare.

Nel secondo emendamento USA, a paragone di ciò, i valori che si scorgono sono piuttosto di tipo “democratico repubblicano”, cioè di milizia per lo Stato. Ma questo non condurrebbe necessariamente a legislazioni di tipo “individualista”, né sugli armamenti né su molto altro. È bene chiarire che, per quanto il modello sociale USA in effetti promuova valori più individualistici (in cui cioè le libertà “dal governo” sono più forti dei diritti sanciti “grazie al governo”, per esempio sociali) rispetto a quelli europei e specie socialdemocratici, ciò non basta a chiarire tutto. Occorre un livello di specificazione maggiore, che renda i modelli sociali una possibile spiegazione anziché foreste pietrificate buone per ogni dibattito in ogni millennio. In base alla norma espressa nel secondo emendamento, in effetti, lo Stato USA potrebbe mantenere la propria coerenza costituzionale legiferando nel senso che la diffusione di armi va fortemente ristretta (come da noi) fintanto che non si presentino seri pericoli per la repubblica, tali cioè da armare i cittadini. Poiché una delle fonti della potenza USA è la pressoché assoluta inattaccabilità del proprio territorio da minacce straniere, sarebbe ben possibile legiferare scindendo la circostanza storica che ha partorito quell’emendamento dalle circostanze odierne. In queste ultime, invece, a contare è soprattutto il modo in cui potentissime lobbies, come quella delle armi, sono legittimate a esprimersi, usando a proprio vantaggio quanto scritto sia nei primo sia nel secondo emendamento. Fra gli essenziali fattori a consentirlo c’è la sentenza della Corte suprema Buckley vs Valeo del 1976, che in sostanza equipara la corresponsione di grandi cifre nelle campagne elettorali ad ogni altro modo di esprimere sacrosantamente le proprie opinioni. Ovvero, come alludevo sopra, proprio al primo emendamento. Nessuna sentenza in seguito ha efficacemente mutato tali dati, per cui nei due grandi partiti USA sono numerosi i parlamentari fortemente condizionati dall’associazione nazionale dei produttori di armi (NRA). Biden, e prima Obama, hanno tentato di mutare le cose, ma non è, ancora, servito. Questa “libertà di espressione” legata alla capacità di influenzare la politica, fino a forme che potremmo definire “corruzione preventiva” (perché il voto parlamentare è già “comprato” prima dell’elezione) promuove la diffusione non solo di armi direttamente derivate dal fucile militare M 16, ma anche una loro “customerizzazione”. Queste versioni di fucile automatico sono più leggere, facilmente portabili, e anche colorate, se lo si vuole, in modo gradevole, rosa o blu. Ad ogni modo, se si vuole tornare alla questione dei “modelli sociali”, occorre intersecarli con i modelli di finanziamento della politica. Indubbiamente la tipologia e forza del rapporto sindacato-politica e lavoro organizzato-Socialdemocrazia, permette di produrre un finanziamento dei partiti che bilancia e limita il potere dei grandi interessi economici. Per esempio, le socialdemocrazie nordiche e il Labour anglosassone (anche in Nuova Zelanda ed Australia, dove ha appena vinto) garantiscono che, almeno, non tutte le forze principali del sistema politico siano egualmente invase da determinati interessi capitalistici. Inoltre, la tendenza “interclassista” del cristianesimo democratico tende a differenziare le proprie fonti di finanziamento, cosicché Socialdemocrazia e centro-destra europeo spesso sono anche convergenti nel promuovere la centralità del finanziamento pubblico. Spicca in questo, lo ripeto spesso, il migliore sistema in assoluto, quello tedesco, che finanzia insieme le fondazioni culturali dei partiti, i partiti in base ai voti presi e (importantissimo) premia con quote di finanziamento pubblico i partiti in base ai piccoli finanziamenti provenienti da iscritti e sostenitori. Ora, esiste un forte rapporto fra (da un lato) modello sociale (in cui lo Stato promuove diritti sociali e si legittima anche grazie ad essi) di cui la classe lavoratrice organizzata ė una parte essenziale, e (dall’altro) un finanziamento della politica concepito in modo più “europeo” e specie “tedesco”. Tutto questo non potrebbe mai condurre all’equazione della sentenza USA del 1976: soldi=uguale libertà di espressione. Insomma, la presenza storica di culture politiche tendenti ad un diverso modello socio-economico promuove anche un diverso modo di finanziare la politica. Diremmo, nel caso europeo, un sistema più equanime rispetto ai vari impulsi, per quanto in Europa abbondino i segnali di regressione (con culture politiche scarsamente rappresentative e democrazia sempre meno inclusiva, a partire dal nostro paese). Azzarderei che il sistema tedesco raggiunge, nonostante tutto, la migliore sistemazione perché rispecchia una convergenza fra socialdemocrazie e centro-destra ordo-liberale che forse è interessante descrivere sommariamente. Da un lato la socialdemocrazia tende (meglio nel passato come si sa) a promuovere un’economia che compete senza sfruttamento del lavoro, e obbliga così all’innovazione. Dall’altra parte l’Ordoliberalismo, pur lontano dalle aspirazioni socialdemocratiche di eliminazione dello sfruttamento, mira a costruire le regole fondamentali della perfetta concorrenza una volta per tutte (una “Costituzione economica”) con pochissimi adattamenti “politici”necessari. Ebbene, questo assetto tecnocratico (banca centrale indipendente, inflazione, welfare e salari sotto il potenziale, stretta regolamentazione della concorrenza mediante autorità poco o nulla influenzate da dinamiche “politico-elettorali”) significa anche che poi non servono (e non sono anzi auspicabili), rapporti troppo  condizionanti fra politica e interesse immediato d’impresa. Del tipo del finanziamento massiccio equiparato ad una libertà fondamentale. Ciò, sia chiaro, ha effetti positivi e negativi. Spesso la politica USA, per produrre domanda e crescita, (favorendo così sia le imprese sia le famiglie che senza lavoro non possono contare su quote di welfare paragonabili ai modelli europei) è più in grado di intervenire, ed in effetti agisce (pur con molte distorsioni) da motore economico del mondo. Invece quella tedesca, e quella Ue molto “ordoliberalizzata”, è più rigida nella reazione alle crisi, con conseguenze negative che tutti conosciamo, e che comprimono anche lo spazio e della socialdemocrazia. Rispetto agli aspetti distorsivi e correttivi del finanziamento alla politica, invece, senza dubbio il modello ordoliberale, anche perché bilanciato dal sempre forte impatto storico  socialdemocratico, ė nettamente da preferire. Non sarebbe male che anche il sistema di finanziamento italiano si avvicinasse a quello tedesco, pur accontentandosi di risorse assolute minori.

di Angela De Benedictis

Istituzioni di governo cittadine in difesa della patria, Bologna, minacciata dal suo sovrano papa Alessandro VI e da suo figlio Cesare Borgia nel 1502. L’istituzione populus cittadino che richiede un parere sulla liceità della resistenza di Bologna al suo sovrano, il papa guerriero Giulio II[1] nel 1506. Un discorso pronunciato in pubblico nel 1502, in volgare; un parere legale (consilium) scritto nel 1506, in latino. Queste le due fonti primarie già da tempo note nelle rispettive edizioni a stampa, di cui qui si forniscono le riproduzioni degli originali manoscritti. Fino ad ora non erano disponibili alla visione diretta, che – soprattutto nel caso del consilium del 1506 – possono essere di particolare interesse per gli studiosi della Società per gli Studi di Storia delle Istituzioni esperti del rapporto tra manoscritti medievali/tardo medievali e stampa (penso soprattutto a Mario Ascheri e Diego Quaglioni, soprattutto dopo il diciassettesimo incontro de "Le Carte e La Storia” dello scorso 4 novembre 2022 su “Tra diritto e istituzioni. Un percorso di ricerca”, https://www.storiadelleistituzioni.it/index.php/le-carte-e-la-storia/le-giornate-de-le-carte-e-la-storia/367-mario-ascheri-tra-diritto-e-istituzioni-un-percorso-di-ricerca).

Autori dell’uno e dell’altro sono due docenti nello Studio bolognese: il canonista e teologo Floriano Dolfi (1445 ca. - 1506[2]) e il doctor utriusque iuris Giovanni Crotto da Monferrato (1475 ca. - 1517[3]).

Da tempo mi sono occupata del discorso di Dolfi e del consilium di Crotto[4]: del discorso pubblico di Dolfi attraverso la edizione novecentesca Orazione in difesa della patria[5], data alle stampe come composizione per le nozze Mirafiori-Boasso; del consilium di Crotto attraverso la edizione del 1576[6]. Vale la pena sottolineare che l’orazione pubblica di Dolfi del 16 ottobre 1502 era stata preceduta da una intensa attività di ambasciatori bolognesi inviati a Roma dal governo cittadino per impedire che Alessandro VI e Cesare Borgia muovessero guerra a Bologna[7]. È d’altra parte noto che Niccolò Machiavelli, seguendo le vicende bolognesi nel corso della sua seconda legazione presso la corte papale in viaggio da Roma a Bologna, riferì ripetutamente delle trattative tra il governo bolognese e l’inviato pontificio Antonio del Monte, Uditore generale della Camera Apostolica, nel settembre-ottobre del 1506[8].

Continuando periodicamente a cercare di individuare l’originale della orazione di Dolfi, mi è fortunatamente successo di trovarlo nella raccolta della Autografoteca Campori della Biblioteca Estense Universitaria di Modena[9]. E, consultando tutta la appendice della Autografoteca, anche di trovare l’originale manoscritto del consilium di Crotto[10].

Mostrare qui entrambi serve anche, da una parte, a dare rilievo alla iniziativa in corso di digitalizzazione della Autografoteca, con un progetto congiunto tra Biblioteca Universitaria Estense e Università di Modena – Reggio Emilia[11].  Dall’altra, a ricordare che l’originale dell’interdetto di Giulio II cui il consilium di Crotto rispondeva era già stato scoperto e mostrato da un archivista, da Mario Fanti[12] (dal 1961 al 2013 Sovrintendente onorario dell’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna), nonché per anni bibliotecario della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna e direttore del Museo e Archivio Storico della Fabbriceria di S. Petronio.

Infine, va detto che anche l’orazione di Dolfi del 1502 costituiva una risposta alla prassi di governo del papato nello Stato della Chiesa costituito dall’uso dell’una e dall’altra spada: cioè l’uso dell’interdetto contro le città per costringere le rispettive popolazioni all’obbedienza, con la motivazione della guerra giusta[13].

Gli autografi Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI del 1502 e il Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum del 1506 testimoniano diverse modalità di risposte immediate alla istituzione papato da parte di istituzioni di governo cittadine, secondo un’altra verità (rispetto a quella pontificia) di teoria e pratica della guerra giusta.

 

Dolfi, Orazione in difesa della patria (pdf)  Crottus (pdf) 

 

 

[1] M. Rospocher, Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna, il Mulino, 2015, e ora la sintesi di Idem, Giulio II a Bologna: arte, politica e religione, nel catalogo della mostra attualmente in corso (8 ottobre 2022 – 5 febbraio 2023) presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna, a cura di D. Benati, M.L. Pacelli, E. Rossoni, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2021,

[2] Su Dolfi, G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, III, Bologna, nella Stamperia di San Tommaso d’Aquino, pp. 256-258; P. Stoppelli, Dizionario biografico degli italiani, 40, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 449-451. Informazioni sulla biografia si possono trovare anche in Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002.

[3] Su Crotto e sul consilium, E. Dezza, Dizionario biografico dei giuristi italiani, (sec. XII-XX), a cura di E. Cortese, I. Birocchi, A. Mattone, M.N. Miletti, Bologna 2013, pp. 615-616.

[4] Riportandone estesamente i contenuti soprattutto a partire da A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 162-164 (Dolfi) e ibidem, pp. 170-187 (Crotto). Per il consilium di Crotto anche in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 115-122 (e un sintetico accenno all’orazione di Dolfi, pp. 113-114). Recentemente, di nuovo su entrambi, A. De Benedictis, Popular Government, Government of the Ottimati, and the Language of Politics: Concord and Discord (1377-1559), in A Companion to Medieval and Renaissance Bologna, ed. by Sarah Rubin Blanshei, Leiden-Boston, Brill, 2018, pp. 297-298 e 299.

[5] Floriano Dolfi, Orazione in difesa della patria (1502), a cura di V. Giusti, Bologna, Zanichelli, 1900.

[6] Ioannes Crottus, Consilia sive responsa, Liber secundus, Venetiis, ex Officina Damiani Zenari, 1576, Consilium 184, pp. 66r-73r.

[7] Delle diverse istruzioni agli ambasciatori, contenute nel fondo dell’Archivio di Stato di Bologna, Comune, Governo, Consigli ed ufficiali, Magistrature ad ambascerie, b. 3, ho dato conto già in A. De Benedictis, Repubblica per contratto, cit., pp. 156-160.

[8] Riferimenti specifici in A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., soprattutto pp. 58-67.

[9] Autografoteca Campori, Dolfi Floriano, con il titolo Dicembre 1502. Orazione fatta da Floriano Dolfi per Alessandro VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Sulla raccolta Campori, cfr. Collezionare autografi. La raccolta di Giuseppe Campori, a cura di M. Al Kalak e E. Fumagalli, Firenze, Olschki, 2022. Il ritrovamento è stato possibile in base a informazioni fornite nel 2002 da Marzia Minutelli nella Nota biobibliografica a Floriano Dolfi, Lettere ai Gonzaga, edizione a cura di M. Minutelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. LXVI-LXVII e LXXII. Minutelli riferiva del codice da lei fatto restaurare in vista di una edizione critica. Tale edizione è poi stata pubblicata come Floriano Dolfi Orazione contro papa Alessandro VI, edizione critica e commento a cura di M. Minutelli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2019. Poiché in https://opac.sbn.it/ il libro del 2019 non è catalogato (a tutt’oggi, 23 gennaio 2023), ne ho acquistato una copia direttamente dall’editore. In Dolfi, Orazione contro papa Alessandro VI, cit., p. 20-21, Minutelli ripete l’occasione del ritrovamento dell’originale, e nella Descrizione del testimone, ibidem, pp. 24-26, afferma come l’edizione di Vincenzo Giusti del 1900 avesse sostanzialmente rispettato «lo sviluppo logico del discorso dolfiano» (p. 25).

[10] Raccolta Campori, Camp. App. 309=Gamma.T.1.3, Consilium Domini Ioannis Croti de Monferrato in Causa Reipublicae Bononiensis Adversus Summum pontificem editum VI ​(Proprietà Comune di Modena, in deposito permanente presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena). Nella Appendice prima al Catalogo dei codici e manoscritti posseduti dal marchese Giuseppe Campori compilata da Raimondo Vandini. Dal secolo XIII al secolo XIX inclusive, Modena, Tipografia di Paolo Toschi e C., 1886, p. 117, n. 309, viene specificato che «il manoscritto cod. cart. in fol. di carte 35, sec. XVI, … porta in fine l’autentica di mano del Croti col suo suggello».

[11] https://iris.unimore.it/handle/11380/1282677

[12] M. Fanti, La bolla “della maledizione” di Giulio II: il ritrovamento dell’originale, in Città in guerra: esperienze e riflessioni nel primo ‘500. Bologna nelle “guerre d’Italia”, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna 10-11 novembre 2006, a cura di G. M. Anselmi – A. De Benedictis, Bologna, Minerva Edizioni, 2008, pp. 269-274. Una riproduzione dell’originale si può vedere nella scheda del volume in https://opac.sbn.it/

[13] A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo, cit., p. 101-114.

 

Di Giovanni Belardelli

(Il Foglio, 17 settembre 2022)

subito dopo la morte di Elisabetta II più d'uno ha richiamato il celebre volume di Ernst Kantorowicz i due corpi del Re (Einaudi). In estrema sintesi, il libro analizza l'idea, che si afferma a partire dalla teologia politica medievale, secondo la quale il sovrano possiede, oltre a un corpo naturale destinato ad ammalarsi e a morire, anche un corpo politico che gli sopravvive poiché rappresenta la perennità del potere sovrano. La formula che tutti conosciamo “il re è morto, viva il re “evidenzia questa indipendenza della sovranità dalla vita di un certo particolare sovrano. Bene, il rinvio al libro di Kantorowicz, Tanto più alla morte di colei che l'opinione globale sente essere l'ultima vera regina, è molto suggestivo. Ma anche del tutto sbagliato.

Quel discorso sui “due corpi del re” valeva per l'antico regime, quando l'autorità sovrana coincideva con l'esistenza stessa della nazione: Luigi XV, re di Francia , affermò per esempio nel 1766: “il mio popolo esiste solo attraverso la sua Unione con me; i diritti e gli interessi della nazione […] risiedono unicamente nelle mie mani”. È necessario dunque, possiamo aggiungere, che la regalità sia immortale perché lo stesso popolo francese, che esiste solo in Unione con il re, possa sopravvivere al fatto contingente della morte di quest'ultimo.

Non molti anni dopo, però, doveva cambiare tutto. La testa è di Luigi XVI cadeva sotto la lama della ghigliottina il 21 gennaio 1793, ma il corpo immortale del re si era già dissolto da qualche tempo. Con la Rivoluzione francese, infatti, l'unione tra monarchia e popolo si era spezzata e la sovranità si era trasferita dal primo al secondo: il popolo diventava il vero sovrano. Per la verità l’art.3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino sosteneva che “Ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”, non dunque nel popolo; questo avveniva per l'intenzione di evitare i rischi di una democrazia radicale e aprire la strada a un sistema rappresentativo non ancora a suffragio universale.  ma la piena affermazione della sovranità popolare era un esito inarrestabile (“La sovranità risiede nel popolo”) proclamava la nuova Dichiarazione del 1793) e nazione e popolo sarebbero diventati sinonimi. Da allora, nelle democrazie, a possedere un corpo incorruttibile, che dunque non muore (anche se forse si ammala, come mostrano tante vicende contemporanee: ma questo è un altro discorso), a non morire  – dicevo – e il popolo come entità collettiva e se vogliamo mistica, poiché non coincide con la semplice somma dei cittadini che lo compongono. Il re costituzionale ormai, anche quando sono circondati da un'amministrazione  e un affetto globali come Elisabetta II, hanno un solo corpo, Che subisce gli oltraggi del tempo e infine muore come quello di tutti noi.

Ma forse, fatta questa precisazione, c'è ancora qualcosa che resta da dire. riandiamo un momento alla fine della peculiare mortalità del sovrano – del suo secondo corpo – che si verifica con la Rivoluzione francese. la nazione, che ora è diventata sovrana, si dota in molti paesi di una rappresentazione femminile che rimpiazza quella del corpo del re. Si tratta di un'allegoria di donna che diventa celebre soprattutto in Francia. E in Francia ha avuto anche, da un certo punto in poi, un nome proprio, Marianne. Nel nuovo clima ottocentesco che vede al centro della vita associata alla nazione, quasi tutti gli Stati europei – sia quelli esistenti sia quelli che aspirano, come l'Italia, esistere come paesi indipendenti e sovrani- si rappresentano attraverso allegorie femminili di questo tipo; si moltiplicano perciò le immagini di donna che raffigurano Germania, Italia, Francia, Svizzera e così via (compresi gli Stati Uniti). la nazione assume le sembianze femminili per tante ragioni, a cominciare dal fatto che una tale immagine rinvia alle capacità generatrici della donna, dunque alla fertilità e per analogia alla prosperità di tutta la collettività nazionale. La donna-nazione  è un'immagine materna e protettiva (si parla della madre-patria), personifica la continuità di un paese al di là del cambiamento dei regimi politici, delle guerre e delle sconfitte, dei passaggi da una monarchia alla repubblica (o viceversa): Rappresenta dunque la perpetuità dell'esistenza di una nazione, il suo “corpo” immortale.

Cosa c'entra con tutto questo la regina inglese appena scomparsa? C'entra, perché non è da escludere che una sovrana che ha regnato per un tempo incredibilmente lungo, riscuotendo un'eccezionale successo in termini di simpatia e rappresentando per i suoi sudditi una figura materna e protettiva, simbolo dell'identità nazionale, sia diventata in qualche modo, decennio dopo decennio, l'allegoria femminile del suo paese. Avendolo accompagnato con equilibrio lungo una storia spesso complicata ha finito per essere una specie – viene da dire – di Marianne britannica. In questo senso, è vero che nessun re (e nessuna regina) hanno più da tempo il “secondo corpo”dei sovrani di antico regime. Ma nell'immaginario dei suoi sudditi, e un po’ anche nel nostro, la sua immagine fa tutt'uno con quella del suo paese.

Radicalizzazione, banalizzazione e neologismi nel discorso politico (Italia e Slovacchia).

Radicalization, trivialization and neologisms in the political discourse (in Italy and Slovakia).

 

Mgr FRANCESCO BONICELLI VERRINA,

Univerzita Komenskeho v Bratislave, Všeobecna Jazykoveda.
 

È generalmente osservabile nel mondo occidentale l'emergere (o riemergere) di parole, discorsi, espressioni che sembravano ormai "fantasmi" e che invece ricevono nuova vita nel discorso pubblico e nel modo di far politica e rivelano visioni del mondo e degli altri esseri umani che pareva la storia avesse sepolto, alle quali chiunque, a qualsiasi livello, avesse fatto riferimento pubblicamente (a maggior ragione rappresentando un'istituzione), per lo meno nella seconda metà del Novecento, sarebbe stato considerato quantomeno scorretto, inopportuno, estremista, e relegato in un angolo del dibattito politico e del confronto pubblico.

Se è vero che le istituzioni democratiche e i partiti dell'Italia democratica post-fascista erano, nel dopoguerra, pieni di "ex fascisti", per esempio, ammesso che anche tanti di costoro potessero ancora intimamente essere in accordo con il defunto regime, l'importante era quello che dicevano e facevano di conseguenza in accordo alle parole della Costituzione del nuovo regime democratico.

Nessun politico di sinistra o di centro o di destra degli anni '70 o ‘80 avrebbe definito, almeno pubblicamente, "politicamente divisiva" la memoria dell'olocausto, invocando magari un "equo trattamento", da parte della storiografia, di vittime e carnefici, o sostenuto apertamente idee razziste nei confronti di altre fedi e culture, nessuno avrebbe colorato di "politico" teorie, osservazioni, constatazioni autorevoli scientifiche, pensando poi di potersi definire ed essere definito "di centro" o "moderato".

Senza l'arrogante pretesa di trovare risultati o soluzioni, in poche pagine, a una questione tanto complessa, sembra però opportuno, anziché rischiare di confondere i concetti di scientificità e di rigore metodologico con quelli di asetticità e sterilità, che portano a scansare ogni responsabilità e presa di posizione pubblica, cercare almeno di osservare e registrare questo fenomeno permettendosi qualche considerazione, forse anche personale, ma senz'altro fondata, che contribuisca se non altro ad un aumento dell'attenzione e della sorveglianza critica sui fenomeni di "distrazione di massa" che probabilmente sono complici dello stato dei diritti umani, civili e ambientali nel mondo e di una certa degenerazione delle democrazie (registrati da anni dallo Human Rights Watch e dagli osservatori sulla democrazia nel mondo, come per esempio quello della Fondazione Feltrinelli o dell'Internazionale Progressista).

Ritengo come il linguista tedesco Victor Klemperer che molto spesso la lingua e i suoi usi rappresentino una spia di questi fenomeni di "distrazione di massa" e siano un punto d'osservazione privilegiato per cogliere certe tendenze che non rimangono poi confinate all'uso della lingua ma si ripercuotono sulla vita e sulle società in generale, come appare, senza bisogno di dimostrazioni, dai fatti irrazionali della storia anche più recenti e attuali. Diceva il poeta tedesco Heinrich Heine che dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche le persone.

I dispositivi digitali e i social network hanno verosimilmente trasformato una parte dei consumatori di messaggi politici in moltiplicatori attivi di quegli stessi messaggi e in polemisti più o meno fanatici, più o meno consapevolmente al servizio del dilagare di certe tendenze politiche e discorsive.

Sembra quasi che anche grazie a questi mezzi la polemica fanatica sia diventata norma di qualsiasi dibattito anche non necessariamente politico, una norma irradiata forse da una certa pratica del discorso politico che ha politicizzato tutto (pur nella concordemente proclamata "fine delle ideologie").

Per descrivere e definire questi fenomeni può essere valido e interessante un approccio interdisciplinare che fornisca alla riflessione linguistica utili apporti dalla filosofia, dalla storiografia, dall'antropologia, dalle scienze sociali e politiche, dalla psicologia, dalla pedagogia, dalla letteratura.

 

  1. Fantasmi del passato, implicature e "slogan sospesi".

 

Chiunque avesse sostenuto pubblicamente certe posizioni fino a vent'anni fa circa, sarebbe stato consapevole di appartenere ad ali estreme e con lui i suoi sostenitori, che oggi invece possono far rimbalzare discorsi razzisti e anti-democratici o illiberali o pericolosamente anti-scientifici (per esempio i movimenti NO-Vax) nella vita quotidiana, sentendo semplicemente di affermare il proprio diritto ad esprimere una "libera" opinione su tutto, questo moltiplicato per il potere di diffusione che oggi danno i social network.

Ognuno si sente per altro titolato a parlare ex-cathedra, ben lungi da quel senso delle "istituzioni commoventi" di cui parlava il poeta, scrittore e regista italiano Pier Paolo Pasolini, iconoclasta e ribelle, ma difensore delle istituzioni libere e democratiche, come confluenza di sacrifici, battaglie, libertà[1].

In particolare è utile soffermarsi sulla massima di relazione, particolarmente efficace nella pubblicità commerciale e nella propaganda politica.

È conforme (non vero o verificabile/falsificabile) agli scopi della comunicazione dire "buono come lo zucchero" o "nero come un corvo", ma anche, "fumare come un turco" o assai peggio dire: "essere ricco e avido come un ebreo".

Sarebbe poco sensato e poco cooperativo dire "alto come un francese" o "nero come una scatola", dal momento che né i francesi sono esempi tipici di persone alte, né le scatole sono esempi tipici di cose di colore nero.

Nemmeno tutti gli ebrei sono ricchi e tantomeno avidi, eppure questo esempio, come altri, risulta ancora, nonostante tutto, straordinariamente cooperativo in diversi contesti e largamente usato in discorsi politici, insieme ad altri vecchi e nuovi analoghi stereotipi xenofobi, enunciati in modo anche più raffinato e implicito e non ancora filtrati dagli anticorpi della cultura.

Grillo chiamò "vecchia puttana" il premio Nobel italiano Rita Levi Montalcini (sopravvissuta all'olocausto) "quella con lo zucchero filato in testa", nel 2001. Nel 2012 ha incominciato a parlare di "lobby ebraica", espressione ormai parte del linguaggio politico italiano.

L'anno dopo una deputata del partito politico fondato da Grillo, Movimento Cinque Stelle, Roberta Lombardi, definì il fascismo un'ideologia "con un altissimo senso dello Stato e della famiglia" e Grillo rincarò la dose affermando: "Hitler era sicuramente un pazzo malato, ma la sua idea di eliminare gli ebrei aveva come obiettivo di eliminare la loro dittatura finanziaria", definendo poi il giornalista Gad Lerner "verme ebreo".[2]

Ciò è tanto più interessante in quanto il partito di Grillo non solo prende milioni di voti, ideologicamente trasversali (ed ha dimostrato una buona dose di spregiudicatezza e disinvoltura nelle alleanze di governo con partiti molto diversi fra loro), ma soprattutto non è dichiaratamente nato sotto la stella dell'antisemitismo, pur evidentemente praticandolo (e negando di praticarlo), e rifiutando particolari connotazioni ideologiche, presentandosi fin dall'inizio piuttosto come una sorta di movimento anti-politico e "piglia-tutto".

Un altro fantasma, che nulla ha a che vedere con l'antisemitismo, è quello di Enrico Berlinguer, storico e popolarissimo segretario del Partito Comunista Italiano (1972-1984), risorto nelle sedi della Lega con un fumetto che gli fa dire, evidentemente rivolto all'elettorato di sinistra che la Lega spera di strappare alle forze in campo avversarie: "Ma non vi vergognate di votare ancora PD (Partito Democratico)?".

Si tenta qui, forse, un po' sulle orme del modello di Salvini, Vladimir Putin (basti pensare alla sua riabilitazione ed esaltazione di Stalin), di accreditarsi sì come forza nazionalista, sovranista, euro-scettica, anti-immigrazione (nel blocco "euro-sovranista" di Marine LePen, la quale pure riesce a strappare voti all'estrema sinistra francese), e anche come restauratori di un certo "comunismo tradizionale", "tradito" dal centro-sinistra democratico. "Berlinguer vi prenderebbe a sputazzi (sputi)" ha detto Salvini il 18/01/2020 ad alcuni contestatori ad un suo comizio a Maranello (Emilia-Romagna).

La pubblicità si serve a piene mani di comunicazione per relazione. Se ci dicono "sicuro come l'aspartame", l'implicatura è che l'aspartame debba essere un fulgido esempio di sicurezza.

Ciò non accadrebbe se ci venisse comunicato lo stesso messaggio per asserzione, del tipo: "l'aspartame è la sostanza più sicura". Anche nel destinatario più sprovveduto, questa asserzione susciterebbe probabilmente un sospetto critico, farebbe scattare un po' di scetticismo, mettendo in allerta nei confronti dell'emittente, risultando addirittura poco credibile e controproducente allo scopo.

L'interessante è che questo tipo di comunicazione riesca a trasmetterci un contenuto molto discutibile. Si tratta di un'informazione difficile da trasmettere per immagini, quindi era necessario codificarla in un enunciato linguistico, ma non in maniera diretta e assertiva, bensì in maniera indiretta ed implicita (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 51).

Così si è fatto e così si è venduto aspartame, per esempio, e si è continuato a farlo anche ben oltre l'arrivo di pubblicazioni scientifiche in merito ai suoi danni alla salute. Perché spesso le informazioni che ci arrivano per implicatura, specie di relazione, ci scivolano nell'inconscio e si sedimentano, grazie a quello stesso principio cooperativo, dono dell'evoluzione.

Non stupisce che per George Orwell l'abilità retorica dei politici di 1984 consista nel dire l'indicibile, convincere delle cose più disumane e inascoltabili, trasformando ed edulcorando mostruosità.

Il "lavoro sporco" di inserire un contenuto discutibile è sempre a carico del destinatario, inconsapevole co-creatore di posverità, il quale non dovrà far altro che credere a sé stesso (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 52).

Lo storytelling politico conta sempre più clamorosamente, secondo lo studioso francese Christian Salmon (2014), sul coinvolgimento attivo di masse di ascoltatori che diventano da passivi ricettori ad "attivi" co-protagonisti (come in un karaoke). Masse sempre più attive nella co-formulazione e diffusione dei messaggi politici, senza ulteriori mediazioni, anche attraverso la virtualizzazione dell'adunata, sui social network.

Come già sapeva il retore sofista ateniese Gorgia (per il quale la parola era farmaco e veleno), contemporaneo di Socrate, l'oratore di successo non si augura affatto che il suo lavoro sia guardato con attenzione, compreso nei dettagli, analizzato a fondo, si augura precisamente il contrario.

I messaggi pubblicitari e propagandistici, sono confezionati contando su queste condizioni di arrivo, puntano tutto sull'elemento più visibile ed evidente: lo slogan, poche parole che verranno lette anche senza volerlo al primo sguardo, anche da chi scorra la rivista o il sito web in cerca d'altro, o guidi su una superstrada o cammini lungo un marciapiede (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 54).

Un destinatario, insomma, è raggiunto e influenzato, persuaso da allusioni, non accorgendosi di ciò che non va nel messaggio, a meno che non sia decisamente diversamente orientato (avverso) e/o abbia un'alta soglia dell'attenzione, ovvero sia in allerta, ma l'attenzione è un bene limitato della nostra mente, eroso da sempre più stimoli. Più siamo distratti, più siamo influenzabili (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 56).

La vaghezza linguistica, anche sintattica, è una componente costitutiva fondamentale di questo processo nel linguaggio politico, accompagnata da un generale impoverimento del linguaggio, in cui tutti sono in effetti davvero protagonisti.

Parlare per esempio di "politica del fare" (come fanno Renzi, Salvini, Di Maio e altri) è sintatticamente vago. A soffermarsi viene da domandare e domandarsi: "Fare cosa?", il complemento oggetto dovrebbe persuaderci, se mai, ma la sua assenza dovrebbe lasciarci quanto meno perplessi, sospettosi e scettici.

Chi, da sinistra a destra, usa questa espressione inflazionata nei suoi comizi, sa bene che chi lo ascolta non si soffermerà sull'analisi grammaticale, che in questo caso non denuncia tanto un'assenza di regolarità, quanto di un programma o del coraggio o della competenza di esplicitarlo. La povertà e l'abbruttimento del linguaggio sono per Victor Klemperer (linguista ebreo tedesco), nel suo diario Lingua del Terzo Reich, un sintomo di deterioramento politico, anche in grado di sopravvivere ai propri responsabili, con ampi effetti sul lungo termine[3]. E il linguaggio influenza il nostro modo di comportarci, relazionarci, vedere il mondo, immaginare il futuro, ricordare il passato.

La collaboratività del ricevente, innescata e sfruttata, completa con quello che vorrebbe sentirsi dire o quel che non si può dire, in quanto magari espressione delle più oscure pulsioni.

I cartelloni di Forza Italia, nella campagna elettorale per le elezioni politiche italiane del 2006, sfruttavano sistematicamente questa strategia:

 

-"Di nuovo la tassa di successione? No, grazie"

-"I NO-GLOBAL al governo? No, grazie"

-"Fermiamo le grandi opere? No, grazie"

-"Più tasse sui tuoi risparmi? No, grazie"

-"Più tasse sulla tua casa? No, grazie"

-"Immigrati clandestini a volontà? No, grazie" (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 61).

 

Ciascuno dei messaggi, esplicitamente, prendeva una posizione negativa su ipotesi impopolari o comunque presentate in modo da suonare indesiderabili. Apparentemente il partito in questione si limitava a dichiararsi contrario a queste eventualità, con un cortese "no, grazie". Ciascun messaggio veicolava in maniera implicita un altro contenuto ben più importante, e cioè che lo schieramento avversario, se avesse vinto, avrebbe perpetrato quei provvedimenti.

Secondo Lombardi Vallauri (2019) esattamente come il dichiarare: "No, grazie, non mi serve l'ombrello" avverte chi ci ascolta che ci è stato offerto un ombrello (anche se non fosse così), idem, in regime di campagna elettorale, il dire "no, non vogliamo di nuovo la tassa di successione, non vogliamo immigrati clandestini a volontà" induce l'elettore a pensare che vi sia il "pericolo" che la tassa venga reintrodotta o che vi sia un atteggiamento quanto meno "pressapochistico" nei confronti dell'immigrazione, da parte degli avversari dell'emittente.

Il giornalista Giuliano Ferrara arrivò addirittura a fondare un partito con il nome "Aborto? No, grazie", per le elezioni politiche italiane 2008 e le europee del 2009. L'escalation si è compiuta alle elezioni politiche del 2018 con lo slogan della Lega di Matteo Salvini: "Schiavi dell'Europa? No, grazie".

A riprova dell'influenza della lingua sul modo di pensare e di far politica, nessuno nel 2006 avrebbe potuto proditoriamente accusare in maniera assertiva e diretta i propri avversari politici di essere "complici dei trafficanti di clandestini"[4] ed avere milioni di sostenitori, per esempio, però quindici anni di implicature lo hanno reso possibile oggi.

Una commissione di sorveglianza, come quella proposta dalla senatrice Liliana Segre (una degli ultimi sopravvissuti italiani ad Auschwitz) nell'ottobre 2019, al Parlamento della Repubblica Italiana, è stata accolta come "liberticida", fino a definirla "strumentalizzazione", "censura", "sovietica", "bavaglio".[5] Implicando dunque che chi proponga un controllo sull'hate-speech sia in realtà intenzionato a limitare o addirittura negare la libertà d'espressione. Una significativa confusione fra libertà d'espressione e insulto o mistificazione storico-politica.

L'implicatura salva da sanzioni, fa apparire nei confronti dei riceventi empatici con loro e obiettivi. Contenuti sostanzialmente diffamatori risultano convincenti. Il "lavoro sporco", consistente nel gettare accuse approssimative sull'altra parte politica, viene compiuto dall'elettore che trae l'implicatura.

Alle stesse sopra citate elezioni del 2006, anche la coalizione di Sinistra faceva un'operazione retorica simile a quella di Forza Italia, con i seguenti slogan:

 

-"Senza asili nido le famiglie non crescono"

-"Il lavoro precario chiude la speranza"

-"Una sanità che funziona rende tutti più liberi"

 

Implicando che gli avversari non volessero asili nido e ospedali efficienti e che sostenessero la precarizzazione del lavoro.

Anche da un punto di vista lessicale è interessante osservare quanto i campi politici fossero abbastanza segnati nel 2006, con la trinità lessicale del centro-sinistra: lavoro, sanità, famiglia (poi in parte sottratta dalla nuova destra) e un centro-destra che in tre slogan su cinque parlava di tasse e negli altri due paventava "sovversione" e "destabilizzazione" (nuclei sovversivi no-global al governo e immigrati clandestini senza controllo).

Si iniziava per altro ad operare quella distinzione tendenziosa fra "immigrato clandestino" e "immigrato regolare", destinata a diventare sempre più pregnante nel discorso politico nel decennio successivo.

Ben lungi dal rimanere una definizione burocratica ufficiale da questure, usciva dalle stazioni di polizia e si insinuava nel linguaggio popolare quotidiano, espressione anche di un aumento della percezione del pericolo (insicurezza sociale, economica, pubblica), accanto a una decrescita effettiva dei reati (secondo dati Istat del 2018), e le parole "clandestino" (cioè fuori legge) e "immigrato", "straniero", "extra-comunitario", "irregolare", "profugo", "rifugiato" sono diventate sinonimi nel linguaggio comune, implicando una specie di "colpevolezza" intrinseca nel fatto stesso di non essere italiano.[6]

Non senza responsabilità è anche l'abitudine giornalistica fuori controllo di specificare sempre la nazionalità di un colpevole o presunto tale, quando non italiano. L'effetto di questo tipo di informazione (sia voluto o no) è quello di far implicare che vi sia un forte nesso causa-effetto fra l'essere di una diversa nazionalità e il commettere reati o perpetrare aggressioni (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 69).

Fino ad arrivare al video-messaggio virale di Giorgia Meloni, nel febbraio 2019, contro la sottoscrizione del governo italiano del Global Compact, il documento ONU sull'immigrazione, con la giustificazione che non si possa ospitare "chiunque scappi da casa sua perché ha fame o così perché gli va"[7].

"Perché gli va", messaggio di una vaghezza linguistica disarmante, che impedisce un'analisi approfondita di qualsiasi tipo sul nascere ed è questo il vero problema, non solo implica che molti migranti si spostino quasi per sport, per divertimento, ma soprattutto nasconde le diverse drammatiche cause sociali, politiche, religiose, economiche, umane, ambientali, climatiche che spingono i migranti a fuggire e cercare di raggiungere l'Europa.

Nell'italiano odierno, parlato, un giovane può dire "mi va/non mi va di fare questo", in modo sgrammaticato e approssimativo. In un tema a scuola verrebbe quasi certamente segnato come errore, un bambino che rispondesse "non mi va di fare questa cosa" potrebbe sembrare capriccioso.

Certo non descrive la situazione di chi per qualsiasi ragione scelga di abbandonare la sua casa, la sua famiglia, il suo paese, attraversare il deserto più grande del mondo per migliaia di chilometri e poi il mar Mediterraneo, su qualche peschereccio o gommone di fortuna, rischiando di morire di fame o sete durante il percorso, annegare, ammalarsi, essere schiavizzato, stuprato, subire angherie, venire ucciso.

Tutto ciò è arrivato ad essere definito da Matteo Salvini, Beppe Grillo e Luigi Di Maio, Giorgia Meloni[8] e altri sotto l'etichetta di "taxi/crociere del Mediterraneo", nella campagna elettorale per le elezioni politiche italiane del 2018.[9]

Già nel 2017 Salvini usciva con affermazioni del tipo: "Gli esseri umani vanno aiutati. Ma 2/3 sono clandestini" (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 69). Seguendo la massima di relazione è legittimo dedurre che, almeno linguisticamente, nel lessico salviniano (di Salvini e di chi lo ascolta), per implicatura, chi fa parte della categoria di "clandestino", portandosi dietro tutti i suoi sinonimi, veri o presunti, non sia più parte del genere umano e (quindi) non vada aiutato.

 

  1. "Cambiare tutto" e "fare pulizia". La lingua politica del rispecchiamento.

 

Alle elezioni  europee del 2019 Giorgia Meloni ha proposto la sua candidatura con lo slogan: "In Europa per cambiare tutto". Se davvero si cominciassero a cambiare tutte le cose che dipendono dall'UE, ci sarebbero enormi disagi in qualsiasi stato membro ne faccia parte (basti vedere quanto accaduto nel Regno Unito, con una lunga gestazione per la Brexit, assolutamente non istantanea), ci sarebbero enormi disagi anche fra i seguaci più convinti del suo partito, Fratelli d'Italia.

Cosa vorrà dire quel "cambiare tutto"? Il senso resta vago, ma la connotazione implicita resta fortemente persuasiva. Tanto basta per simpatizzare, a un elettore superficiale che ami pensare di "cambiare tutto" e al quale non interessi riflettere su cosa comporti. Come osserva Lombardi Vallauri (2019), finché ci saranno molti elettori così, questa strategia pagherà chi la metterà in campo (LOMBARDI VALLAURI, 2019: 104).

L'uso di concetti vaghi e piglia-tutto, come "famiglia", ispira fiducia in chi non ha idee politiche precise o è disinteressato e disattento. Ha riguardato ampiamente la Lega di Salvini: "Giù le mani dalla famiglia! No ai matrimoni omosessuali".

Questo tipo di linguaggio implicito ha veicolato, in pochi anni di escalation, a molti che vogliono "cambiare tutto" e che hanno a cuore l'idea di "famiglia", per esempio, che gli omosessuali minaccino la famiglia tradizionale, l'Europa blocchi la strada per il cambiamento e ci voglia schiavizzare, i migranti clandestini non vadano aiutati perché non sono esseri umani.

Già il 2 giugno 2018 Salvini aveva detto "la pacchia per i clandestini è finita" e definito le ONG "vice-scafisti".[10]

Di recente il Dizionario Treccani ha aggiunto alla definizione di "scafista": "operaio addetto alla manutenzione/riparazione di scafi di navi e aerei", anche quella secondaria, ormai di uso comune, di "chi trasporta immigrati clandestini servendosi di motoscafi", attività che, secondo Salvini, le organizzazioni umanitarie non governative, che operano con volontari nel Mediterraneo, farebbero in loro vece quindi.

Ben più interessante è soffermarsi sulla parola "pacchia", secondo la definizione del Dizionario Treccani: "condizione di vita, o di lavoro, facile e spensierata, particolarmente conveniente, senza fatiche o problemi, senza preoccupazioni materiali, anche l'avere da mangiare e da bere in abbondanza".

Molte volte Salvini, anche come ministro degli Interni della Repubblica Italiana, ha definito in questo modo la condizione dell'immigrato clandestino.

Se tuttavia durante il suo ministero nel governo in coalizione con il Movimento Cinque Stelle "la pacchia è finita", già il 13 settembre 2019, appena uscito dal governo, formatosi un nuovo governo di coalizione di Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali, Salvini se ne usciva, sempre in diretta facebook, con un nuovo proclama agli immigrati clandestini: "Festeggiate finché potete, vi prenderemo, la pacchia finirà e faremo pulizia".[11]

"Fare pulizia" implica "pulizia di clandestini", fa pensare ad altre epoche ed altri episodi storici nei quali la stessa parola è stata accostata ad esseri umani, "pulire da" "pulire di", come "debellare", come si debellano parassiti e insetti infestanti.

In quanto a "pulizia" in politica occorrerebbe memoria storica per osservare che è una parola che è stata spesso usata anche da movimenti poco o per niente liberi e democratici, nel corso della storia.

È parola ampiamente usata anche dall'altra nuova forza politica del panorama italiano, Movimento Cinque Stelle, in pochi anni diventato, con la Lega, uno dei primi partiti del Paese, in termini di voti e popolarità.

Forza politica fondata all'insegna dell'anti-politica, dal comico Beppe Grillo, Movimento Cinque Stelle, alle elezioni politiche italiane del gennaio 2013 aveva conquistato 162 seggi in Parlamento, affermandosi come primo partito nazionale. Grillo intimava al resto del Parlamento, da fuori, tra la folla di fans in piazza: "Siete circondati" e "Apriremo il parlamento come una scatola di tonno".[12]

Il Parlamento non è più un edificio, un'istituzione, ma è stato linguisticamente trasformato nell'oggetto simbolo dell'usa e getta, del mangiare da poco, alla veloce, la scatola di alluminio che si apre in un attimo, si usa e si butta via. I parlamentari dei vecchi partiti sono accerchiati, circondati, come in un colpo di stato, dovrebbero uscire, a mani in alto magari.

Una volta al governo, il ministro del Lavoro (poi degli Esteri), Luigi Di Maio, capo politico del Movimento Cinque Stelle, al governo in coalizione con la Lega dal 2018, parlava nel giugno del 2019 di "pulizia" all'interno del Movimento, che ha avuto diverse espulsioni: "Ci sono persone che bivaccano, serve pulizia. Non si può entrare, mettere tutto a soqquadro".[13]

Vale a dire che chi nel Movimento non è d'accordo con il capo politico deve andarsene, altrimenti "fa soqquadro", occorre "pulizia" di chi è nel movimento a "bivaccare".

Benito Mussolini si insediò, come Presidente del Consiglio dei Ministri il 16 novembre del 1922, con il celebre "discorso del bivacco", paragonando la Camera dei Deputati, alla quale parlava, a un "bivacco".

Bivaccare: trascorrere la notte in un bivacco (l'accampamento alpino dei pastori o dei soldati o degli alpinisti), pernottare all'aperto, "accamparsi in modo provvisorio e non ordinato" secondo il Dizionario Treccani. Non si può entrare nel movimento senza mettersi in un certo "ordine" dunque.

Il discorso politico populista tende a presentare l'immagine di una società indifferenziata e semplificata, che punta su opposizioni rigorose, antagonismi e distinzioni rigide tra amici e nemici (CEDRONI, 2014: 35). E confonde questo con l'ordine.

L'elemento centrale del populismo è il riferimento al "popolo" (alla "gente delle valli", Salvini, 2018), sia come invocazione e come appello al "popolo", non meglio identificato, sia come richiamo alla "voce del popolo" (CEDRONI, 2014: 38).

"Avvocato del popolo, amico del popolo" (come passò alla storia il rivoluzionario francese Jean-Paul Marat) fu definito da Di Maio e dal Movimento Cinque Stelle il loro candidato premier, Antonio Conte (professore di Diritto), nel 2018.

La stessa piattaforma online, attraverso la quale il "popolo pentastellato" esercita una forma di "democrazia diretta", virtualizzata, si chiama "Rousseau" e spesso Di Maio se ne esce dicendo: "chiederemo a Rousseau", "decide Rousseau", quando si tratta di sondare la popolarità di qualche provvedimento, che viene sottoposto al giudizio preventivo della "rete".

Interessanti sono anche le comuni, rimbalzate, reciproche accuse di "intrighi", anche declinati nel più tipicamente italiano "inciuci". "Inciucio" è parola popolare italiana, ormai di uso politico esteso e trasversale, che indica in un'accezione più macchiettistica (se non teatrale) l'intrigo o complotto, di solito implicitamente ai danni del popolo.

Il discorso politico del populismo si costruisce intorno a un certo schema: Noi, i nostri, il popolo, voi, loro: quelli lassù, là fuori, completamente diversi, stranieri (CEDRONI, 2014: 40). Anche il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, segretario dal 2019 al 2021, ha imperniato la sua campagna elettorale alle primarie del partito sull'idea del ritorno del "Noi" anche nel suo partito, in una rincorsa al populismo.

Si tratta di espedienti retorici semplificatori e volti a far intendere che l'emittente si occupa della "gente", creando un rapporto quasi intimo, per esempio anche tramite analogie come l'equazione tra partito e casa privata, tra bilancio pubblico dello Stato e bilancio di un'impresa.

Silvio Berlusconi, quale imprenditore dell'editoria e dell'informazione, ma soprattutto presidente di una delle prime squadre di calcio del campionato nazionale italiano, il Milan, annunciò la sua entrata in politica, nel 1994, come "discesa in campo" (con implicito riferimento ai suoi successi sul campo di calcio), per far sentire la sua vicinanza alla gente, chiamando anche il suo partito come un incitamento da stadio: "Forza Italia".

Berlusconi fece riferimento alla casa (nel suo lessico collegata implicitamente anche alle idee di impresa e squadra) quando chiamò "Casa delle libertà" la coalizione da lui guidata dal 1994, poi trasformata, usciti coloro che erano diventati nei vari passaggi politici "indesiderabili", in partito, nel 2009, come "Popolo della Libertà", sciolto nel 2013.

Se i partiti della Prima Repubblica (1946-1992) richiamavano tutti la dimensione ideologica: Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito Liberale, Partito Repubblicano, eccetera, nella Seconda Repubblica solo il Partito Democratico, fondato nel 2007 per raccogliere il centro-sinistra italiano atomizzato dopo il crollo dei partiti storici e passato attraverso vette di simbolismo fitomorfico: "La Quercia", "L'Ulivo", "La Margherita", "La Rosa nel pugno", etc, ha osato chiamarsi partito (proseguendo in un tentativo di apparentamento ideale ai Democratici statunitensi), gli altri partiti hanno tutti fatto riferimento a una nuova dimensione emotivo-populistica.

A partire dal partito "L'Italia dei Valori", fondato da Antonio Di Pietro, il giudice simbolo della stagione di processi politici che ha fatto implodere la Prima Repubblica ("Tangentopoli"), facendo riferimento alla parola "valore", implicando valore morale, anche se non meglio definito, fino al più recente "Popolo della Famiglia", nato in opposizione alla legge sui matrimoni omosessuali, per la difesa dei "valori tradizionali".

"Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale", di Giorgia Meloni, che fa un enfatico riferimento all'inno nazionale di Goffredo Mameli e ad un'ideale "fratellanza nazionale italiana", ha dato dal 2012 una nuova "casa politica" alla destra nazionale, sociale e neo-fascista, dopo le divisioni e trasformazioni del vecchio Movimento Sociale (fondato in continuità della sciolta Repubblica Sociale Italiana di Mussolini).

La Lega, nata come "Lega Nord", nel 1989, faceva riferimento alla Lega Lombarda, costituita fra i Comuni liberi del nord Italia, nel XII secolo, contro l'imperatore Federico Barbarossa, enfatizzando l'unione ed indipendenza di un mai esistito popolo padano-celtico, affermandosi come partito-movimento, revisionista sull'unità italiana ed euro-scettico. Poi trasformato in Lega, dal 2018, sotto la guida carismatica di Salvini, mantenendo il nome simbolico, la lega politica spontaneamente fondata dal popolo come resistenza agli oppressori o agli invasori, ormai capace di capitalizzare elettorato del nord quanto del sud.

Infine Movimento Cinque Stelle, nato nel 2009, anti-politico e con l'aspirazione dichiarata di prendere il 100% dei voti, ha scelto un nome benaugurante, i suoi membri si ritengono, dando un calcio alla modestia, "a cinque stelle", in contrasto con l'assenza di valore dell'altra vecchia classe politica (o "casta", nel loro lessico). Dire di qualcosa "a cinque stelle" è espressione di uso comune per indicare qualcosa di grande qualità, si fa implicitamente riferimento, nell'immaginario collettivo, al mondo alberghiero o della ristorazione, "vetrina" e "traino" dell'Italia.

Va sempre nella direzione volta a creare una dimensione intima con l'elettorato, ad esempio, anche l'espressione, molto in voga nel discorso politico italiano, "mettere le mani in tasca agli italiani". Chi la usa vuole apparire come colui che mette in guardia gli elettori da chi vuole mettere le mani nelle loro tasche, come un padre con un bambino che sta per incorrere in uno scippatore di strada, la tassazione per lo stato sociale viene equiparata ad una sorta di saccheggio, scippo, estorsione.

L'emittente appare come qualcuno che si preoccupa: "i tuoi affari sono i miei affari", ovvero "io mi occupo di te e del tuo problema", come nello slogan del Partito democratico della sinistra, in Italia, "I care" (CEDRONI, 2014: 41), negli anni di Bill Clinton in America (e di Berlusconi in Italia), una potente formula politica populista, potenziata, in pieni anni '90, dall'uso attraente dell'inglese, all'inizio della moda dei forestierismi inglesi nel discorso politico italiano.[14]

"Io parlo apertamente e alla buona", "io non ho peli sulla lingua", continuano a ripetere politici del Movimento Cinque Stelle e della Lega, ostentando aperta antipatia per chi abbia proprietà di linguaggio e li corregga per esempio in merito a fatti storici, come quando Di Maio, attualmente ministro degli Esteri, disse che Pinochet era stato dittatore in Venezuela.

Francesco Speroni, eurodeputato della Lega (dal 1999 al 2014), si è fatto conoscere per aver rivendicato in più occasioni di "parlare da ignorante" perché ritiene di "rappresentare un elettorato ignorante, questa è la democrazia". L'affermazione evidentemente implicava una sorta di preteso vantaggio (se non merito) nel voler rimanere ignoranti e così eventualmente rispecchiare (anziché emancipare) la parte più ignorante dell'elettorato.

Si parlò e si parla infatti, nella Seconda Repubblica (in Italia), e in altre democrazie odierne, di "democrazia del rispecchiamento" (sempre più al ribasso), nella quale i leader politici non sono più stimati e seguiti in base alla propria capacità di formulare concetti semanticamente e lessicalmente alti (in una tensione educativa, forse paternalistica), talvolta quasi incomprensibili all'elettorato (vetta esemplare in tal senso può essere considerato il concetto delle "convergenze parallele", geometricamente impossibili, espresso da Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana (1959-1964), per esprimere il "compromesso storico" fra comunisti e democristiani in Parlamento e al governo, nel 1974). Bisogna dire che Speroni ha poi avuto diversi emuli che lo hanno citato più volte negli anni.

Nel 2007 Umberto Bossi, fondatore della Lega, invitò addirittura i leghisti a "prendere i fucili" per difendersi dal prelievo fiscale.[15]

L'uso dell'accrescitivo, popolare e empatico, talvolta sarcastico, anche laddove è necessaria una forzatura linguistica, è ampiamente sfruttato da Salvini: "ciaone", "bacioni", "dottoroni", "musoni", etc.

La rappresentazione negativa dell'avversario avviene tramite ingiurie verbali iperboliche e spesso metaforiche, sostituendo l'argomentazione critica e razionale.

Iperbolici sono gli elenchi che Salvini fa nei suoi discorsi per enfatizzare le categorie con le quali si sente solidale, in contrapposizione agli "altri".

Iperbole può essere considerato anche l'indicare genericamente tutti i propri avversari a sinistra come "comunisti", per esempio, ivi includendo anche moderati, cristiani, liberali, socialisti, democratici, etc, come faceva (con una certa dose di "bonapartismo") Silvio Berlusconi, avendo per altro nel suo partito anche ex membri della sinistra, ma indicando generalmente chiunque non fosse con lui come "comunista", e implicitamente "nemico", estendendo oltre ogni ragionevole limite (per un ventennio dopo il crollo della cortina di ferro) il tempo della contrapposizione ideologica fra i due blocchi, durante il quale l'Italia si era collocata saldamente nel blocco filo-americano.

Oggi Salvini chiama "sinistri", o come Grillo e Di Maio usa anche i termini "radical-chic" e "borghesi", tutti coloro che, da destra a sinistra, sono contro di lui. "Sinistro" in italiano è infatti un aggettivo che, usato in un contesto politico, può indicare, in maniera vaga, chi faccia parte della sinistra, ma implica anche il significato primario che indica qualcosa di oscuro e pericoloso (il senso di pericolo che evocava la parola "comunista", in tanti elettori italiani, fra gli anni '50 e '70).

Nel giugno 2019 scoppiò in Italia il "caso Sea Watch". Salvini, come ministro degli Interni, aveva promulgato il decreto di chiusura dei porti alle navi delle ONG attive nel Mediterraneo per salvare i migranti naufraghi.

Carola Rackete, volontaria tedesca trentenne, alla guida dell'imbarcazione Sea Watch, forzò il blocco, dopo giorni di appelli per poter attraccare con i suoi naufraghi raccolti, fra i quali anche donne e bambini. Fu perseguita e poi assolta per il suo operato "illegale", con le varie attenuanti.

Ciò che è più interessante, dal punto di vista della lingua politica e di quello che crea, è che in quei giorni Salvini si prodigò nello squalificare Carola Rackete facendo leva sul fatto che avesse più lauree e fosse poliglotta e venisse da una famiglia "ricca e borghese".

Inevitabilmente il fatto di essere colti, laureati e poliglotti per Salvini è un demerito, sono meno funzionali ad altre sue eventuali richieste agli italiani dei "pieni poteri", come nel 2019[16] (come Mussolini nel 1924). I suoi candidati ed elettori devono più rispecchiare la sua Lucia Borgonzoni, la quale da candidata alla presidenza della regione Emilia Romagna sosteneva che la sua regione confinasse con il Trentino Alto-Adige[17] e da sottosegretaria alla Cultura si vantò di non leggere un libro da tre anni[18].

Il fatto di essere "ricco" per Salvini non è ovviamente un problema, come non lo è per Donald Trump o per Vladimir Putin, i suoi due massimi modelli politici internazionali, ma come loro non denigra tanto chi è ricco (loro stessi e molti loro amici lo sono), quanto chi si riconosce nei principi "borghesi", che, dall'Illuminismo (forse dal Rinascimento) in poi, hanno implicato anche una progressiva attenzione e sensibilità, intese come obbligo morale, verso chi è socialmente ed economicamente meno fortunato da parte di chi lo è di più, anche senza essere necessariamente miliardario.

Così si costruisce il sentimento di ingiustizia in un popolo come quello italiano, che fra i paesi UE ha sempre avuto e ancora ha un esteso ceto medio che tuttavia si è percepito sempre più attaccato da tasse e finanza e si percepisce sempre più "povero", in competizione con gli altri più "poveri" che vengono in Italia (contribuendo anche alle pensioni italiane: l'Italia ha la popolazione più vecchia d'Europa, senza ricambio generazionale).

Così una persona di ceto medio che compia un'azione del genere di quella intrapresa dalla Rackete, persona socialmente ed economicamente analoga a milioni di italiani, viene raccontata e percepita nell'immaginario collettivo come una sorta di "Robin Hood al contrario". "Ricca", tedesca, quindi naturalmente alleata dei "poteri forti" che mettono in atto la "sostituzione etnica" per colpire l'Italia e i già impoveriti italiani.

Gli insulti sessisti che ha ricevuto sui social network, vera e propria "gogna", in quei giorni, dimostrano il livello di malessere politico creato da un certo uso della lingua e da un certo racconto e da una certa interpretazione della realtà.

 

  1. Alcuni degli slogan politici raccolti dalla campagna elettorale per le elezioni parlamentari slovacche del 2020. Un esempio di uso delle implicature e della retorica del rispecchiamento:

 

  • partito OĽaNO (Matovič) - slogan:  Úprimne a odvážne (Onestamente e coraggiosamente).
  • Si tratta di un partito letteralmente composto di "Gente comune e personaggi indipendenti", che pretende di dimostrare quella onestà e quel coraggio, non meglio specificati, che gli avversari evidentemente non possiedono.
  • partito Smer (Pellegrini) - slogan: Zodpovedná zmena (Cambio responsabile).
  • Un partito che ha come nome "Direzione" fa certamente leva, come tanti altri partiti, sulla sfera emotivo-populistica, un partito che spinge verso una direzione, anche qui non meglio specificata. Va detto, è già importante avere una direzione ma bisognerebbe anche essere informati su quale sia, nessuno salirebbe su un autobus o su un treno che non si sappia dove sono diretti, se non costretto. Per fortuna, ci pensa lo slogan a specificare: "cambio responsabile", che dovrebbe forse bastare a qualcuno che si ritenga genericamente "responsabile" a simpatizzare, perché anche qui non si specifica di quali cambiamenti si parli e quindi verso cosa e a quale titolo i candidati di questo partito dovrebbero essere ritenuti più responsabili di altri.
  • partito SNS (Danko) - slogan: Zastavili sme Istanbulský dohovor (Abbiamo fermato la Convenzione di Istanbul).
  • Il "Partito Nazionale Slovacco" (noto per le esternazioni xenofobe del suo ex segretario Jan Slota) è per lo meno l'unico ad aver esposto nel suo slogan un contenuto esplicito, per quanto deprecabile. Ovvero, ci dicono apertamente, facendosene anche vanto: abbiamo fermato la Convenzione di Istanbul (la convenzione internazionale del 2011 sulla violenza di genere). Come a dire: se ritieni sia una cosa saggia votaci. Evidentemente bisognerebbe verificare che cosa l'opinione pubblica slovacca abbia avuto modo di sapere e approfondire in merito a quella convenzione e si potrebbe discutere all'infinito sul perché e come una convenzione internazionale contro la violenza di genere debba e possa diventare "politicamente divisiva", in un paese libero e democratico, in uno stato di diritto.

 

  • partito Sas (Sulík) - slogan: Alternatíva existuje / Menej štátu, nižšie dane / Zdravý rozum je najlepší recept (L´alternativa esiste / Meno stato, tasse piú basse / Senso comune é la ricettta migliore).
  • Il partito “Libertà e Solidarietà” fa forse più leva su una sorta di complottismo collettivo: un’alternativa c’è ma non te la fanno vedere, elettore: la ricetta è meno stato e tasse più basse (un vecchio mantra berlusconiano, sedicente liberale ma in contrasto con le tesi dei grandi statisti liberali storici come Luigi Einaudi, che ebbe e avrebbe alquanto da obiettare sulla solidarietà e sulla libertà di uno stato senza tasse per lo stato sociale e i servizi pubblici), "il senso comune è la ricetta migliore", simile a quanto ripete in continuazione Matteo Salvini, il povero "senso comune" messo in antitesi a tutti i vari non meglio qualificati "professoroni".

 

  • partito PS/Spolu - slogan: Za férové a hrdé Slovensko (Per una Slovacchia giusta e orgogliosa).
  • "Insieme": "Per una Slovacchia giusta e orgogliosa", si commenta da solo e fa abbastanza eco al partito di Antonio Di Pietro "L'Italia dei valori", contrapposto all'Italia senza valori, come in questo caso: insieme contrapposti agli slovacchi senza giustizia e senza orgoglio.
  • partito KDH - slogan: Nádej pre spravodlivé Slovensko (Speranza per una Slovacchia giusta).
  • Lo storico partito cristiano slovacco richiama a un sentimento di speranza e di giustizia che evidentemente richiamano radici e valori cristiani in un preciso target elettorale che fa riferimento a quel gruppo e orizzonte ideale-religioso specifico.

 

  • partito Dobrá voľba - slogan: Riešenia bez hádok (Soluzioni senza litigi).
  • “Buona scelta” sembra analogo al partito italiano “Bene Comune”, clamoroso flop ma potente quanto vago messaggio politico: la prospettiva di trovare in democrazia soluzioni senza “litigi” per un “bene comune" è talmente utopistica da somigliare più a una proposta para-dittatoriale, un po' come quella del Movimento Cinque Stelle e di tutte quelle forze populistiche che pretenderebbero di avere la totalità dei consensi (cosa che non accade nemmeno nelle elezioni rituali truccate in Corea del Nord). Si tratta anche forse di una quasi patologica colpevolizzazione del contrasto, scontro, confronto di idee, colpevolizzazione che di fatto può essere l'altra faccia della medaglia della fanatizzazione del dibattito pubblico, lungi dall’esserne l’antidoto.
  • partito Ľudová strana - Naše Slovensko (Kotleba) - slogan: Chceme Slovensko národné a kresťanské. A čo ty? (Vogliamo la Slovacchia nazionale e cristiana. E tu?).
  • Marian Kotleba, internazionalmente noto per slogan come: "Le slovacche sono le donne più belle" e per le sue uscite xenofobe, euroscettiche, ultranazionaliste (per usare degli eufemismi) fa un perfetto gioco di implicatura nel suo slogan, usando termini sostanzialmente "neutri" come "nazionale" e "cristiana", ma con il chiaro intento di veicolare significati ben più incisivi e di pilotare un eventuale elettore inconsapevole, sprovveduto, disattento o disinteressato verso la galassia ultranazionalista, ci pone la solita domanda retorica "innocente" con implicatura, lasciando tutto il lavoro sporco all'elettore che legge: "Vogliamo una Slovacchia nazionale e cristiana e tu?" ovvero: "La vuoi anche tu una Slovacchia nazionale e cristiana, come la vogliamo noi?", e implica anche naturalmente: qualsiasi sia la tua idea di questi due termini neutri e vaghi di per sé "nazionale e cristiano", sappi che con gli altri non li avrai.
  • partito Sme rodina (Kollár) - slogan: Myslím srdcom (Penso con il cuore).
  • "Siamo una famiglia" è certamente un partito che vuole fare il gioco di Silvio Berlusconi con "Forza Italia" assurto da slogan sportivo a slogan politico. Qui forse si fa riferimento alla vecchia canzone: We are family, delle Sister Sledge. Implica logicamente il potersi sentire in un clima famigliare, casalingo, quasi in un'atmosfera da focolare, con il leader, come "La Casa delle Libertà". Ovviamente in questo caso completa il nome di convenienza lo slogan: "Penso con il cuore", come una vera e propria pubblicità commerciale che debba vendere un prodotto facendoci sentire a casa nell’acquistarlo e consumarlo.

 

  • partito Vlasť (Harabin) - slogan: Ukradli našu vlasť. Vráťme ju ľuďom! (Ci hanno rubato la patria. Ridiamola al popolo!).
  • Il partito della patria punta invece su uno slogan di chiara accusa, per implicatura, che "gli altri/loro" hanno rubato la patria, ancor più enfatico e teatrale: "Ci hanno rubato la patria!" (il "ci" come a dire anche: io sono stato derubato come voi). Qualcuno ha rubato questa patria bisogna acciuffarlo e restituire al popolo questa "povera patria", il candidato non si candida tanto a presiedere e guidare un paese quanto a essere assunto come un detective, evidentemente, dal popolo, per andare a riconquistare la patria perduta e ci promette che lo farà al posto nostro, senza che noi dobbiamo nemmeno muovere un dito.

 

Conclusioni.

 

È difficile arrivare a conclusioni nette e certe per un lavoro, in realtà all'interno di una più ampia e articolata ricerca di dottorato (con un approccio interdisciplinare), che non si pone come obiettivo altro che quello di raccogliere elementi che contribuiscano a descrivere e definire un fenomeno osservato e osservabile, per quanto discutibile: l'impoverimento e la radicalizzazione del discorso politico, in relazione a un altro coevo fenomeno sotto gli occhi di tutti e già a sua volta oggetto di studi scientifici: la vasta fanatizzazione e banalizzazione del dibattito pubblico nella lingua comune, per mezzo dei social ed a tutti i livelli, non tanto e solo come turpiloquio (si potrebbero anzi rinvenire esempi di turpiloqui concettuali e raffinatissimi in tutte le epoche) bensì come manifesta tendenza generale alla superficialità, alla deresponsabilizzazione, al binarismo, all'ipersemplificazione di discorsi sempre più scevri di tracce di approfondimento e problematizzazione e fatti per altro da personaggi che di ciò si fanno vanto, in maniera più o meno ostentata e per di più ottenendo il risultato del successo elettorale o comunque un qualche successo di pubblico, fama, consenso, seguito, diventando quindi invitanti modelli sociali (e anche linguistici, comportamentali e culturali) ai quali omologarsi.

Da un punto di vista meramente empirico non si può dire che tutto questo non desti preoccupazione per i suoi effetti e che quindi non sia opportuno osservare tutto ciò, anche se non porterà a risultati immediati (come un'equazione o un algoritmo) e forse ancor meno a soluzioni, ovvero che non sia scientificamente e culturalmente valido e necessario, se non utile, raccogliere i dati e le prove di questo fenomeno, fare considerazioni sulle cause e sugli effetti possibili di quegli elementi e descrivere questi fatti che forse, o probabilmente, un giorno non lontano produrranno ulteriori sviluppi che dalle cause, che oggi sono sotto i nostri occhi e possiamo osservare, non promettono niente di buono.

Non riflettere sulla lingua e sui fenomeni linguistici e sulle sue tendenze, con un approccio interdisciplinare, così come sulla politica e sull'educazione linguistiche, fa male alla democrazia e alla libertà, com'ebbero a dire, in termini diversi, Tullio De Mauro nei suoi studi di una vita e Gianni Rodari attraverso le sue opere di fantasia e di immaginazione. Entrambi ci hanno invitato a vedere nella lingua uno strumento libero e di creazione, un gioco serio per dirla con Johan Huizinga, non un abito ingessato, ma qualcosa da custodire, coltivare e da arricchire continuamente e da usare come inesauribile strumento e fonte di creazione, espressione, libertà ed emancipazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Francesco Bonicelli Verrina, Univerzita Komenskeho v Bratislave, This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

 

 

[1]   https://francescomacri.wordpress.com/2018/10/06/pier-paolo-pasolini-ai-giovani-contestatori-del-68-siete-in-ritardo/ (04/04/2022).

[2]     Osservatorio Italiano Antisemitismo e Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano: osservatorioantisemitismo.it/articoli/antisemitismo-di-beppe-grillo/ (18/01/2020).

[3]     Per Klemperer espressioni e parole come "de-nazificare" erano nella Germania del dopoguerra testimoni di quanto la manipolazione linguistica operata dal nazismo fosse sopravvissuta al nazismo stesso, lasciando aperto il dubbio che una lingua modificata possa portare avanti e custodire i semi del regime stesso che l'ha creata, nel modo di ragionare (se siamo la lingua che parliamo) anche quando esso è stato sconfitto ed è scomparso.

[4]     M. Salvini, huffingtonpost.it/entry/salvini-su-facebook-io-non-sono-stato-non-sono-e-non-saro-mai-complice-dei-trafficanti-di-esseri-umani (20/01/2019)

[5]     S.Berlusconi (31/10/2019 www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/31/berlusconi-fi-astenuta-su-commissione-contro-odio-no-a-strumentalizzazioni-la-sinistra-voleva-nuovo-reato-dopinione), G. Meloni (02/11/2019 it.blastingnews.com/politica/2019/11/commissione-segre-meloni-vecchia-idea-della-boldrini-censura-politica-della-sinistra), M. Salvini (02/11/2019 https://www.huffingtonpost.it/entry/salvini-contro-la-commissione-segre-e-sovietica-si-imbavaglia-il-popolo).

[6]     accademiadellacrusca.it/it/consulenza/migranti-profughi-e-rifugiati-anche-le-parole-delle-migrazioni-sono-sempre-in-viaggio (12/01/2020).

[7]     huffingtonpost.it/entry/giorgia-meloni-detta-la-linea-sul-global-compact (27/02/2019).

[8]     Sommati superano ampiamente la metà dei voti espressi alle elezioni politiche italiane del 2018.

[9]     Per chi voglia approfondire si consiglia la lettura di Roberto Saviano, In mare non esistono taxi, Contrasto, Milano, 2019.

[10]     repubblica.it/politica/2018/06/02/news/governo_salvini_lega_migranti.

[11]     ilfattoquotidiano.it/2019/09/13/lega-salvini-a-migranti-festeggiate-finche-potete-poi-riprenderemo-con-la-pulizia

[12]     adnkronos.com/IGN/News/Politica/Grillo-presenta-le-liste-Apriremo-il-Parlamento-come-una-scatola-di-tonno

[13]     ilfattoquotidiano.it/2019/06/22/m5s-di-maio-ci-sono-persone-che-bivaccano-serve-pulizia-non-si-puo-entrare-mettere-tutto-a-soqquadro-e-andarsene

[14]     A proposito di impatto linguistico dell'inglese basti pensare alla riforma della scuola proposta da Berlusconi a fine anni '90 che aveva come obiettivi dichiarati 3 I: Inglese, Internet, Impresa. All'inseguimento i leader della sinistra nel tentativo di dimostrare di essere ancora più "americani" di lui, da Valter Veltroni che usò l'obamiano "We can" per la sua campagna elettorale, a Matteo Renzi con i suoi moral suasion, jobs act, etc e poi dall'altra parte ancora Matteo Salvini, in tempi di trumpismo, con la sua flat tax.

[15]     repubblica.it/2007/08/sezioni/politica/bossi-milano-capitale/bossi-26ago/bossi-26ago

[16]   https://www.ilpost.it/2019/08/09/matteo-salvini-pieni-poteri-elezioni/ (04/04/2022).

[17]   https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/02/borgonzoni-la-gaffe-della-leghista-candidata-per-lemilia-romagna-la-regione-confina-anche-con-il-trentino/5491583/ (04/04/2022).

[18]  https://www.huffingtonpost.it/entry/disse-non-leggo-un-libro-da-tre-anni-ora-e-sottosegretario-alla-cultura_it_6036acd3c5b69253191abd69/ (04/04/2022).

di Nadan Petrovic, Università degli studi di Roma “La Sapienza”

 

Negli ultimi tempi, la già precaria situazione nei Balcani occidentali si è aggravata sotto molti aspetti, fino ad arrivare a sfiorare nuovi conflitti armati. Lo “status quo” definito dagli Accordi di Dayton del 1995 e di Kumanovo del 1999 – che posero fine rispettivamente alla guerra in Bosnia Erzegovina e al Kosovo – è caratterizzato dal ciclico riproporsi di alcuni problemi che vanno dall’irrisolta “questione kosovara”, ai tentennamenti della Serbia nell’intraprendere una definitiva direzione europea, alla situazione politica estremamente tesa in Montenegro, fino ad arrivare alle frustrazioni delle attese della Macedonia del Nord e dell’Albania connesse al processo di adesione all’Unione Europea.

In tale contesto, la parola è tornata, il 2 ottobre 2022, agli elettori in Bosnia Erzegovina. Questi dovevano scegliere, nel quadro di uno dei più complessi e macchinosi sistemi istituzionali a livello internazionale, sia i tre membri della Presidenza collegiale, sia i loro rappresentanti nel Parlamento centrale, nonché in quello delle due Entità costitutive del Paese, Repubblica Srpska e Federazione della BiH.

Prima di passare all’esito della consultazione elettorale vanno fatte tuttavia due doverose premesse. Ai sensi degli Accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina è suddivisa in due entità, la Federazione della Bosnia Erzegovina (nota anche come Federazione “croato-bosgnacca”), costituita sul 51% del territorio e, Repubblica Serba di Bosnia, formata sul restante 49% del territorio (abitato, a seguito delle divisioni etniche e territoriali belliche, prevalentemente della popolazione serbo-bosniaca). Ai sensi della Costituzione che è parte integrante degli Accordi di Dayton. il Paese è governato da una Presidenza collegiale (composta da tre membri, ognuno dei quali viene eletto dai rispettivi gruppi etnici di appartenenza), da un Parlamento bicamerale e dal Consiglio dei Ministri. Tuttavia, anche ciascuna delle due entità possiede una propria Costituzione nonché dei propri organi legislativi ed esecutivi autonomi (presidente, parlamento – monocamerale nella Repubblica Srpska e bicamerale nella Federazione - e governo). La particolarità dell’organizzazione statale-amministrativa bosniaco erzegovese – formalmente uno stato centrale con una forte e peculiare modalità di decentramento (si noti, tra l’altro, che una delle due unità viene denominata Federazione) – non finisce qui: anche all’loro interno le due entità “decentrate” sono articolate in maniera molto eterogenea. Mentre la struttura della Repubblica Srpska risulta centralizzata, la Federazione è articolata in tre livelli (la Federazione, i cantoni e le municipalità). Tale complessa (e costosa) struttura istituzionale e insieme causa ed effetto di una pluridecennale tensione tra chi vorrebbe rafforzare il livello centrale (prevalentemente i partiti a maggioranza bosgnacca) e chi invece privilegia la fortissima autonomia delle entità (parte serbo-bosniaca, senza nascondere, anche dichiaratamente, la volontà di unire un giorno il territorio della Repubblica Srpska alla Serbia); più ambigua la posizione dei croati bosniaci, favorevoli al rafforzamento centrale ma nei fatti più interessati ad una forte autonomia dei cantoni a maggioranza croata e, idealmente, alla creazione di una terza entità.

Per comprendere meglio il quadro della situazione va sottolineato un ulteriore dato di fatto, riportando le lancette dell’orologio molti anni indietro, nel lontano novembre 1990, ovvero alla data delle prime elezioni “libere” in Bosnia Erzegovina (successive cioè alla caduta del Muro di Berlino). A queste stravinse una coalizione dei partiti d’ispirazione nazionalista composti dal Partito d’azione democratica – SDA (partito etnico dei bosgniacchi), della Comunità democratica croata - HDZ e del Partito Democratico Serbo -SDS. Al fine di prevalere sul fronte contrapposto - rappresentato principalmente dagli ex comunisti confluiti in Partito socialdemocratico (SDP) e dalla cosiddetta Alleanza delle Forze Riformiste (SRSJ za BiH), in rappresentanza delle forze politiche e sociali di orientamento “civico” – i tre partiti etnici, che non ‘competevano’ tra loro in merito a un potenziale elettorato, si proposero in una coalizione formale. Grazie alle mirabolanti promesse, questi presero il potere e installarono un sistema tripartito di governo a tutti i livelli. Purtroppo, come del resto era prevedibile, l’incanto durò pochissimo: la coalizione vincente non riuscì a raggiungere un accordo su nessuna singola questione e nel giro di pochi mesi la Bosnia Erzegovina rimpiombò nel caos politico-istituzionale e, successivamente, nell’aprile 1992, in un sanguinoso conflitto. Ma al danno della guerra seguì la beffa della fase post-bellica. I partiti vincitori delle elezioni nel 1990 - che si scontrarono duramente, non solo politicamente - durante la guerra, continuarono a governare il paese anche dopo gli Accordi di Dayton riproponendo ciclicamente temi nazionalisti e creando ad arte i problemi etnici al fine di risvegliare antiche paure e rivendicazioni di tipo estremistico. L’unico cambiamento politico di rilievo avvenuto in oltre trenta anni di declino, è rappresentato dall’affermarsi stabilmente al potere nella Repubblica Srpska - al posto del SDS, il cui leader Radovan Karadzic fu processato e condannato per i crimini di guerra dal Tribunale speciale per la ex Jugoslavia - di Milorad Dodik e del suo Partito dei socialdemocratici indipendenti (l’SNSD), che hanno tuttavia da tempo abbandonato le posizioni socialdemocratiche a favore di quelle nazionaliste e che sono divenuti, da beniamini delle socialdemocrazie occidentali, i principali stakeholder della Federazione russa nella regione. Al netto di questo cambiamento, i tre partiti (l’SDA, l’HDZ e l’SNSD al posto dell’SDS), nonostante molti anni di politiche fallimentari, hanno continuato a monopolizzare le sorti del Paese, creando un sistema di potere tri(etno)partitico ed emarginando ogni forma di opposizione.

In tale contesto, il risultato elettorale, pur carico di qualche novità sul piano politico aggiunge ulteriori incognite alla di per sé complessa realtà politico-istituzionale.

La prima novità consiste in un moderato successo, specialmente nella Federazione BiH  del blocco dei partiti bosniacchi e civici della c.d. “Coalizione dei otto”. Tale blocco, composto dal Partito socialdemocratico della Bosnia-Erzegovina (SDP), Narod i Pravda (NiP), Il nostro partito (NS), il Partito per la BiH (SBiH), l'Iniziativa della Bosnia-Erzegovina Fuad Kasumović, il Movimento di azione democratica (PDA), la Lista Indipendente della Bosnia ed Erzegovina (NES) e del Partito per la nuova generazione (ZnG), il cui denominatore comune consiste nel fatto di non cercare semplicemente il voto non etnico, è riuscito a far eleggere – per la prima volta dal 1990 – quale rappresentante “eletto tra le file del popolo bosniaco-mussulmano”, un esponente dell’opposizione (e non del  Partito d’azione democratica -SDA). Inoltre, anche tra le file del popolo croato-bosniaco, è stato eletto – in questo caso per la seconda volta – un rappresentante di un piccolo partito dell’opposizione (del Fronte democratico, che non fa parte della Coalizione degli otto) e non quello espresso dalla Comunità democratica croata - HDZ. Per quanto riguarda il terzo membro della Presidenza collegiale, “eletto dalle file del popolo serbo-bosniaco” è stato confermato invece il candidato del SNSD.

La seconda novità – in un certo senso anche più rilevante in quanto i poteri dei membri della Presidenza siano in realtà molto limitati, consiste nel raggiungimento di un accordo per la costituzione del Governo centrale tra il SNSD, HDZ e la “Coalizione degli otto” nonché di Governo della Federazione della BiH tra questi ultimi due (HDZ e “Coalizione degli otto”). In altre parole, senza il Partito di Azione Democratica (SDA), che ha formato la maggioranza dei governi del Paese dalla fine della guerra nel 1995.

Secondo i suoi promotori, l'accordo, annunciato come “storico”, dovrebbe cambiare il clima politico nel Paese. Lo stesso è stato raggiunto peraltro in tempi record per gli standard bosniaco-erzegovesi: il processo di nomina del Consiglio dei ministri della Bosnia-Erzegovina dovrebbe essere completato nei prossimi giorni laddove per la nomina del Governo uscente si dovettero aspettare ben quattordici mesi. .

Li finiscono però le novità (o, a secondo del punto di vista, buone notizie). Sebbene la nuova coalizione si sia detta “programmatica” ovvero tesa ad occuparsi dei problemi della vita dei cittadini (i nuovi partner della coalizione si sono concentrati su ciò su cui possono essere d'accordo e hanno deciso di mettere da parte le loro differenze) alcune divergenze di fondo appaiono davvero incolmabili. Ad esempio, quelle relative alla collocazione internazionale del Paese - con il SNSD che si oppone con forza all’adesione alla NATO, ma nei fatti anche all’UE – nonché in relazione all'organizzazione interna del Paese. Inoltre, non è del tutto chiaro come dovrebbe funzionare effettivamente la nuova maggioranza parlamentare, a causa di una coalizione insolitamente ampia che includerà almeno dieci partiti - le cui opinioni politiche variano dall'estrema destra all'estrema sinistra - ma anche a causa delle minacce del Partito di azione democratica (SDA) di far bloccare tutti i provvedimenti importanti nella camera alta del parlamento federale. Infatti, la stessa SDA, pur rimanendo fuori dell’accordo di Governo ha vinto individualmente il maggior numero di mandati nella Federazione BiH. Ecco che allora, in una specie di giostra orientale, dove le possibili unioni politiche nascono e muoiono nell’arco della stessa giornata, tutto rimane ancora molto incerto.     

Il che, al di là di tutti tecnicismi, riporta al nocciolo della questione: in un quadro di totale paralisi politica - istituzionale (basti citare che il governo della Federazione BiH era in "mandato tecnico" per tutto il periodo tra le due elezioni) ed economico-sociale, né le prospettive mirabolanti non realizzate, né i clamorosi insuccessi in tutti campi ha tuttora privato i partiti di ispirazione nazionalista (SDA, HDZ e SNSD) di un importante consenso popolare. Quale il risultato, ad oltre venticinque anni dagli Accordi di Dayton, il paese risulta diviso in territori etnicamente omogenei, senza efficienti istituzioni comuni e con un’economia prevalentemente assistita mentre registra tassi di emigrazione senza precedenti (secondo le stime della Banca Mondiale, la Bosnia-Erzegovina è diventata oggi il paese che sta perdendo la sua popolazione più velocemente).

Quando si scriverà la storia dei paesi Est europeo a seguito del processo di democratizzazione avviato dalla caduta del Muro di Berlino, Bosnia Erzegovina di certo non sarà ricordata come una “success story”.

 [pubblicato il 17/01/2023]

di Paolo Borioni

2 settembre 2022

Gli anni di Gorbachev possono essere interpretati da diversi punti di vista, ma il mio personale approccio alla ricerca storica e le mie ricerche  riguardanti il socialismo europeo mi portano a proporre quello di una fecondazione, in parte non intenzionale ma certo non casuale, fra culture politiche sparse per l’Europa e capaci di circoli virtuosi. Willy Brandt di sicuro diede inizio ad una semina e ad una contaminazione decisiva. Ciò avvenne prima con la Ostpolitik varata al tempo della sua cancelleria, poi, in seguito alle controverse dimissioni del 1974, con la sua presidenza dell’Internazionale Socialista (1976): rafforzando e rinnovando il socialismo europeo, costruendogli intorno nuove reti e seminando in tutto ciò ovunque concetti capaci di fruttificare.

Ad esempio esiste una gran differenza fra la Ostpolitik di Merkel e quella di Brandt: quella di Merkel ha confidato pressoché esclusivamente sulle virtù (troppo spesso credute autosufficienti) del commercio pacificante e dell’interdipendenza economica. Sempre dubbiosa (come del resto la Francia e l’Italia) rispetto all’allargamento della NATO, la Germania ha così pensato che la propria  capacità commerciale potesse bilanciare le insidie d’una sicurezza NATO che moltissimi osservatori ed esperti sapevano essere troppo unilateralmente perseguita. Si è pensato lungamente che l’interdipendenza commerciale potesse prevenire il frutto velenoso della “sicurezza unilaterale” dell’Occidente, ovvero la sfiducia e poi l’aggressività russa in Ucraina. Invece, l’insufficienza dell’approccio ha mutato l’interdipendenza in sfiducia aperta (da parte russa) e in dipendenza energetica (da parte tedesca e non solo).

Le strade aperte dalla Ostpolitik di Brandt, ma soprattutto l’opera internazionalista di Brandt e dei socialisti in genere, invece costruì iniziative, concetti e reti orientate a produrre un’interdipendenza non solo economicista, e una moltiplicazione della fiducia in molti campi. Ciò anche per risolvere il dilemma tedesco: continuare (certo) a crescere come potenza economica, ma affermandosi anche come attore politico di primo piano, e creando al contempo tutte le condizioni per dissociare permanentemente questo ruolo dall’identità di potenza militare. Per fare ciò occorreva coerenza etico-ideologica e senso della storia (che non mancava ovviamente a Brandt, o a Kreisky, per le esperienze vissute fra le due guerre), benché tutto ciò non fosse disgiunto dal realismo politico.

La comparazione fra l’oggi e l’epoca di Gorbachev ci dice che la natura delle culture politiche nazionali (o sovranazionali) poste in circolazione può produrre interazioni virtuose o viziose nelle relazioni internazionali. Può per esempio completare l’effetto insufficiente delle relazioni commerciali, o al contrario contribuire a far puntare ingannevolmente sulla sua sufficienza.

L’affermarsi politico di Gorbachev e poi della sua proposta di distensione si comprende insomma meglio ricordando che non solo Brandt, ma in genere i leader dell’internazionalismo socialista si aprirono a culture politiche di un socialismo diverso (da quello “spurio” del New International Economic Order a quello sudamericano) sulla base (fra l’altro) di un’idea ampliata e progressiva di cosa causasse l’instabilità, e dunque di cosa favorisse le tensioni internazionali.

L’approccio “cold warrior” (semplificando) faceva coincidere grandemente l’instabilità con la manovra occulta dell’avversario strategico, per esempio in Sudamerica. Quello dell’Internazionale Socialista, sempre più attiva ed accogliente nel sud del mondo, era che la radice almeno principale dell’instabilità fosse socio-economica. Questo giudizio di base si afferma particolarmente durante la presidenza Brandt dell’Internazionale Socialista che si protrae per tutti gli anni 1980, ma era già componente essenziale della visione di paesi in cui il socialismo democratico era egemonico: dai neutrali come Svezia e Austria, ai membri Nato come Norvegia, Danimarca e Paesi Bassi (presto anche i paesi iberici di Gonzales e Soares).

Ciò era connesso ad altri due elementi presenti e fortemente interattivi nell’Internazionale Socialista: c’era l’esigenza di uscire dai classici confini europei della socialdemocrazia ovvero, come accennato sopra, sia di farsi carico dei problemi di sviluppo del Sud del mondo, sia di aprirsi a socialismi diversi e nuovi.

Ma c’era anche un altro elemento importante: tramutare la storia socialdemocratica recente dei paesi occidentali in proiezione internazionalista. La generazione socialista al potere dagli anni 1960 in poi era particolarmente adatta a mettere a frutto la realtà storica per cui, in misura diversa,  i paesi della socialdemocrazia (Svezia, Austria, Germania, tutti) avevano acquisito stabilità solo con la riforma profonda delle rispettive società ed economie capitalistiche.

Era del resto per questa via che si rifiutava anche la dottrina “realista” della stabilità come prodotto esclusivo dell’equilibrio di potenza.  Per sostenere invece la riduzione dell’instabilità mediante la lotta alle disuguaglianze globali, un nuovo rapporto Nord-Sud e molto altro: questo fu la Commissione Brandt, almeno inizialmente promossa dalle alte sfere della Banca Mondiale.

Ma questa complessa maturazione dell’ internazionalismo socialista (non certo sviluppato fino a pochi lustri prima) conduceva conseguentemente, al momento inevitabile di affrontare anche il negoziato sulla sicurezza, a generare un altro concetto: non l’equilibrio del terrore, ma la sicurezza condivisa. Eccoci ad una ulteriore idea-base ormai assente da decenni, ed all’istituzione che la elaborò in modo definitivo: la commissione Palme. È peraltro proprio mediante questa commissione che la semina di concetti ed idee diviene sistematica e il rapporto fra le varie facce dell’internazionalismo socialista e Gorbachev si fa più stringente. Olof Palme comincia a presiedere la commissione quando (come quasi mai capita) il suo partito socialdemocratico non è al governo. Eppure i frutti non tardano a venire anche perché le reti di esperti e statisti (consolidati o in divenire) formatesi nei lustri precedenti vi trovano una congiunzione. Nella commissione a generare il concetto di “sicurezza condivisa” sono numerose e importanti personalità capaci di riportarne nei propri paesi l’impulso. Ma anche di mettere a frutto l’appartenenza a reti di leader, futuri governanti, influenti esperti e consiglieri. Fra di essi il sovietico Georgi Arbatov, direttore di lungo corso dell’ISKAN, centro per lo studio di USA e Canada. Ma anche (fra i molti) Harlem Bruntland e Joop Den Uyl, la norvegese e l’olandese presto a capo di due paesi Nato. Cui si potrebbe aggiungere Bahr e Brandt in Germania, Holst in Norvegia, Gareth Evans in Australia; oltre a Palme, Theorin, Dahlgren in Svezia, David Owen nel UK; Cyrus Vance negli USA; Obasanjo and Ramphal nel sud del mondo. Arbatov, che considerò la Commisione Palme degna di una definizione apposita (INGO: ovvero organizzazione non governativa internazionale), afferma nelle sue memorie che il rapporto della Commissione fu decisivo affinché Gorbachev diffondesse l’idea di sicurezza condivisa nel proprio paese. E puntualizza che le reti di decisori strettamente connesse alle elaborazioni della commissione andarono anche oltre le partecipazioni esplicite, estendendosi a Rajiv Ghandi, Bruno Kreisky, Pierre Trudeau, Bettino Craxi e Ingvar Carlsson, che avrebbe sostituito Palme come primo ministro di Svezia dopo l’assassinio del 1986.

Un altro sovietico come Andrei Kokoshin, anche lui alla guida dell’ISKAN e forse il più influente esperto sovietico di difesa degli anni 1980 (tanto da assurgere a ministro della difesa nel 1992), afferma la grande importanza della commissione Palme nello sviluppo della proposta Gorbachev. Sarà insomma possibile all’URSS, guidata dallo statista russo appena scomparso, promuovere la “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva” (altro concetto elaborato negli ambienti della Commissione Palme) nella comunità internazionale degli anni 1980. Per rendere possibile questo fu decisivo il coraggio di Gorbachev e le sue grandi visioni, ma  anche il fatto che i “falchi” del PCUS non poterono accusarlo di astrazione dalla comunità internazionale e dal mondo reale. Ciò significa ricordarlo con tutto l’humus di idee che negli anni 1980 gli permise di non reagire aggressivamente alla superiorità USA e alla pericolosa sfida di Reagan (con cui un Brandt ancora decisivo nella SPD e nella internazionale socialista entrò in aperto contrasto) favorendo invece una straordinaria stagione di fiducia.

Quella di Gorbachev fu insomma un’epoca in cui si cercò di generare una contaminazione dinamica. Si tentò di abbandonare dottrine troppo legate alle fissità: di superare il puro equilibrio di potenza realista, di distanziarsi dalle eterne e immutabili leggi geopolitiche, di dismettere la dottrina delle democrazie per definizione mai aggressive e dunque (paradossalmente ed insostenibilmente) autorizzate all’espansione. Si cercò al contrario di puntare, mediante reti e istituzioni internazionali, sulla diffusione di contenuti cooperativi nei “depositi” ideali nazionali. Il concetto di “deposito’, peraltro, si adatta anche a definire le caratteristiche e gli atteggiamenti dei diversi paesi senza autorizzare fissità o determinismi. “Deposito” è qualcosa di composito e di variabile. Esso reca elementi del passato, anche geopolitici, ma non è una fissità, nemmeno rispetto a quali elementi dei depositi nazionali vengono privilegiati in un certo contesto storico, o a come essi vengono combinati per ottenere sintesi nuove.

La SPD di Brandt aveva mutato il proprio deposito ideale nazionale costruendo a sua volta nuovi percorsi e finalità per l’affermazione dell’interesse tedesco. Ed aveva, con altre socialdemocrazie, reso globale l’impatto dell’Internazionale Socialista. La “sicurezza condivisa” e la “difesa non offensiva”, cui aveva grandemente contribuito il socialismo internazionale, avevano poi integrato il “deposito” nazionale sovietico. Ciò rese più facile e più sostenibile la leadership di Gorbachev, che  cercava modi non aggressivi di reagire alla sfida strategica ed ideologica di Reagan. Anche perché sapeva che l’URSS non l’avrebbe retta.

La situazione odierna, viceversa, si spiega con il ricorso, già da anni, ai contenuti meno cooperativi dei depositi nazionali ed ideologici. Così, invece che culture e reti politiche capaci di circoli virtuosi, si sono affermate, ben prima del 24 febbraio, troppe fissità e vieti conformismi.

 

 

 

 

 

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