di Nadan Petrovic, Università degli studi di Roma “La Sapienza”
Le guerre e gli esodi dei rifugiati che inevitabilmente conseguono ci trovano sempre impreparati, a maggior ragione se questi avvengono in un paese europeo. Eppure, il sistema internazionale di protezione di rifugiati nasce proprio sul suolo europeo per curare una delle principali conseguenze della Prima guerra mondale vale a dire il fenomeno dei rifugiati provenienti in primo luogo proprio dalle zone dell’attuale Ucraina. Infatti, mentre sul fronte occidentale della Grande Guerra le linee di combattimento rimassero a lungo pressoché invariate con, di conseguenza, un minor impatto sulle popolazioni civili, sul fronte orientale, l’esodo di milioni dei rifugiati fu una delle dirette conseguenze delle attività belliche (in particolare in alcune zone quali ad esempio la c.d. Galizia). Già nell’estate - autunno del 1915, il numero di rifugiati ammontava ad almeno 3,3 milioni di persone per arrivare nel 1917 – alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre - ad oltre 6 milioni. Secondo le testimonianze dell’epoca i rifugiati rappresentavano il “15 percento della popolazione di Nizhnij Novgorod e quasi il 25 percento di quella di Ekaterinoslav e Pskov. Quasi il 30% degli abitanti di Samara erano rifugiati”.
Tali eventi, amplificati come detto dalle conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre, ma anche dagli accordi di pace successivi al conflitto introdussero cambiamenti geopolitici di enormi proporzioni (“I tre imperi europei sono crollati, erano nati quattordici nuovi Stati, si erano aggiunti undici mila chilometri di nuove frontiere esterne in Europea”), portano nei primi anni Venti il continente europeo a sperimentare una crisi di rifugiati senza precedenti, tale da rendere vani i tentativi dei singoli stati (europei) a risolverla e costringerli a dover chiedere aiuto agli organismi internazionali. Tale ricorso portò alla creazione dell’Alto Commissariato della Società delle nazioni per i rifugiati – chiamato, inizialmente Alto Commissariato della Società delle nazioni per i rifugiati russi - e la definizione delle prime convenzioni internazionali di tutela dei rifugiati.
Anche le conseguenze della Seconda guerra mondiale furono simili nelle manifestazioni ed ancora maggiori nelle dimensioni. Alla fine della guerra, infatti, decine di milioni di rifugiati - i sopravvissuti allo Shoah, gli appartenenti alla minoranza etniche, i cittadini dell’Est europeo che scappavano dai paesi dietro la cortina da ferro – si riversarono nell’Europa occidentale in cerca di protezione. Come già accaduto nel primo dopoguerra, per fare fronte alla nuova crisi, i paesi europei dovettero ricorrere all’aiuto internazionale (erogato prima tramite UNRRA-United Nations Relief and Rehabilitation Organization, IRO-International Refugee organization e successivamente tramite ACNUR – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), in un contesto che portò, altresì, all’adozione di uno strumento internazionale di tutela dei rifugiati importantissimo: la Convenzione di Ginevra sullo status di Rifugiato del 1951. La Convenzione che prevedeva peraltro la possibilità di essere ratificata da parte degli Stati membri mediante apposizione della la c.d. “riserva geografica” ovvero riservandosi gli stessi Stati di riconoscere lo status di rifugiato “ai soli individui di provenienza europea”.
La dimensione europea del fenomeno cambiò radicalmente solo in seguito al processo di decolonizzazione che a partire dagli anni Cinquanta, dopo che tanti conflitti internazionali ed interni (anche per “interposta persona”), fecero esplodere le gigantesche crisi dei rifugiati negli altri continenti, in particolare in quello africano ed in quello asiatico. In queste nuove circostanze, il continente europeo si cullò nell’idea di aver archiviato per sempre il fenomeno di rifugiati (difatti l’attenzione maggiore delle politiche comunitarie nel settore dell’immigrazione e l’asilo degli anni Ottanta fu dedicato al tema di contrasto delle domande di asilo “strumentali” anziché alla promozione di politiche d’integrazione).
Lo spartiacque in tal senso fu rappresentato dalla guerra in ex Jugoslavia, che oltre a riportare dopo quaranta cinque anni un conflitto armato, peraltro violentissimo, in Europa, produsse milioni di rifugiati. Non è un caso, infatti, che lo strumento giuridico con il quale l’Unione Europea si appresta ad accogliere rifugiati ucraini – la c.d. Direttiva sulla protezione “temporanea” del 2001 - sia stata elaborata e adottata a seguito della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) ed in Kosovo (1998-1999).
Un ultimo cenno alla peculiarità nostrana. Nell’immediato post Seconda guerra mondiale, l’Italia fu una delle realtà maggiormente esposte al fenomeno dei rifugiati. Forse proprio per questo il nostro Paese nel 1954 fece la scelta - del tutto peculiare per le democrazie occidentali - di ratificare la già menzionata Convenzione di Ginevra sullo status del rifugiato del 1951, apponendo la già menzionata “riserva geografica”.
Di conseguenza nel periodo dalla ratifica della Convenzione nel 1954 a tutto il 1989 furono presentate in Italia solo 188.188 domande d’asilo: la maggiore pressione sul sistema d’asilo si registrò infatti, soltanto in occasione dei vari tentativi di rivolta dei paesi sotto il dominio sovietico, ed in particolare della rivolta ungherese del 1956, la cosiddetta “primavera di Praga” o del colpo di Stato in Polonia a seguito delle manifestazioni del sindacato Solidarnosz. Per il ritiro della “riserva geografica” si sarebbe dovuto, infatti, aspettare il mutamento dello scenario politico internazionale della fine degli anni Ottanta, caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino da un lato, e dall’avvio del processo di armonizzazione delle politiche europee in materia di immigrazione e asilo, dall’altro. La “riserva geografica” venne infatti abolita solo con la c.d. legge Martelli nel 1990; il fatto quest’ultimo, che nel contesto di un sempre più crescente flusso globale delle persone in fuga sia da persecuzioni individuali che da situazioni di violenza generalizzata portò ad una sensibile e pressoché costante crescita delle richieste d’asilo anche nel nostro Paese, iscrivendo l’Italia – in particolare nell’ultimo decennio - tra i Paesi maggiormente esposti ai flussi per richieste di protezione internazionale tra i paesi industrializzati.
Nonostante così repentino e radicale cambio dello scenario, nel dispositivo nazionale d’asilo permangono a tutt’oggi diverse criticità strutturali - dovute, a parere dell’Autore, proprio alla particolare evoluzione esposta sopra – che rischiano di rendere molto problematica l’accoglienza dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. Le criticità che possono essere sintetizzate, da un lato, nell’ estrema debolezza di governance nazionale del settore e, dall’altro nella pressoché totale assenza di politiche d’integrazione (a favore di quelle generiche “di prima accoglienza”, che di norma non portano gli accolti a una vera inclusione nonostante l’esborso considerevole di denaro pubblico).
Difatti, la scelta a non trattare – fino a tutto il 1989 - le domande d‘asilo dei richiedenti non europei portò non solo al delinearsi, per lunghissimo arco temporale di due distinte categorie di rifugiati: i rifugiati de iure o “sotto Convenzione” e i rifugiati de facto o “sotto mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati” ma a due status molto diversi sotto il profilo assistenziale e sociale. A seconda che si tratti, rispettivamente, di rifugiati europei o extraeuropei, le domande d’asilo erano inviate al Ministero dell’Interno (alla c.d. Commissione paritetica di eleggibilità) oppure all’Ufficio dell’ACNUR in Italia (aperto in Italia il 15 aprile 1952 prima ancora della ratifica della Convenzione di Ginevra da parte dello Stato italiano). L’esito positivo del procedimento per quanto riguardava i “rifugiati europei” si concludeva con una dichiarazione di “eleggibilità” che, oltre a certificare il riconoscimento dello status di rifugiato, permetteva agli stessi di fruire del diritto al soggiorno e al lavoro, equiparandoli peraltro dal punto di vista assistenziale ai cittadini italiani. Per i rifugiati extraeuropei invece l’eventuale riconoscimento di status di rifugiato da parte dell’ACNUR (che aveva il potere di decretare la qualifica di “rifugiato sotto mandato”) non implicava il riconoscimento di alcun diritto da parte dello Stato italiano, che si limitava a rilasciare al titolare un permesso di soggiorno provvisorio “in attesa di emigrazione” (con il quale veniva preclusa, tra l’altro, ogni possibilità di svolgere attività lavorativa), costringendo quindi i “titolari non europei” a proseguire il loro viaggio. Di conseguenza, mentre agli altri paesi veniva delegato il compito di predisporre una protezione (ovvero integrazione) duratura, per quasi quarant’anni l’Italia ricopre prevalentemente il ruolo di Paese di “prima accoglienza” (offerta – fino a tutto il 1989 - in soli tre centri di accoglienza presenti sul territorio nazionale). Anche in seguito, sebbene il dispositivo di accoglienza venisse notevolmente rafforzato a partire dagli anni Duemila – al fine di fare fronte alla crescita delle domande d’asilo - la sua impostazione generale continuava (e continua a tutt’oggi) ad essere improntata alla “prima accoglienza” anziché alle politiche d’inclusione e di integrazione. Difatti, gli interventi del settore continuano a mancare di una strategia e di un approccio “olistico” al fenomeno, con il rischio di avere come risultato solo la costante necessità dell’aumento dei posti in accoglienza e/o un semplice protrarsi del periodo di permanenza nei centri. Quale risultato, già ora, molti rifugiati, pur muniti di un permesso di soggiorno di validità pluriannuale, dopo anni di accoglienza, finiscono in situazioni di grave emarginazione sociale vivendo in stabili occupati, stazioni ferroviarie ed altro.
Ciò anche a causa dell’estrema debolezza del sistema di governance nazionale. Difatti, sebbene lo Stato italiano si sia assunto gradualmente la piena responsabilità della valutazione delle domande d’asilo (prima tramite la c.d. Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato e, successivamente tramite le c.d. Commissioni territoriali) e, dell’assistenza dei rifugiati (subentrando il Ministero dell’Interno - prima tramite la c.d. AAI Amministrazione Aiuti internazionali e successivamente tramite la Direzione Generale dei servizi civili e, successivamente e il Dipartimento Libertà civili e l’Immigrazione - in toto al ruolo svolto precedentemente dagli organismi internazionali quali UNRRA, IRO e specialmente ACNUR/UNHCR) nel nostro Paese continuano a mancare (ad eccezione di due brevi esperienze del c.d. Ministero dell’Integrazione, istituiti dai Governi Monti e Letta), sia i dicasteri con il mandato specifico in relazione alle politiche d’integrazione, sia le agenzie nazionali in grado di governare gli aspetti complessi gestionali del fenomeno dell’asilo e dell’accoglienza (sul modello della tedesca BAMF).
Peraltro, per tornare al precedente dell’esodo dalla “ex Jugoslavia”, anche allora, per colmare le mancanze dell’azione governativa vennero avviate molte iniziative spontanee d’accoglienza a favore dei rifugiati, organizzate nella maggior parte dei casi da associazioni e gruppi di sostegno informali. Si trattò di iniziative spontanee e non coordinate realizzate con un grande slancio volontaristico che cercarono di far fronte, nell’immediato, all’emergenza. Tuttavia, ben presto si capì che occorreva sia rendere gli interventi di accoglienza propedeutici all’integrazione - che infatti avvenne con successo e anche velocemente - sia prevedere forme di efficiente coordinamento nazionale. Modello questo ripetutosi, sebbene in un arco tempo più breve, con l’individuazione di una struttura commissariale appositamente dedicata ed il coinvolgimento del sistema delle Regioni nel contesto della c.d. Emergenza Nord Africa nel 2011.
Di conseguenza, dunque, le attese dimensioni dell’esodo dell’Ucraina, unitamente al fatto che la permanenza dei rifugiati nel nostro Paese verosimilmente non sarà di breve durata, richiedono di predisporre sin da subito interventi che vanno ben oltre delle semplici iniziative di solidarietà e di ”prima accoglienza”) e di individuare sin da subito una struttura centrale avente i compiti di coordinamento delle complessive attività in materia. In caso contrario, rischiamo di vedere letteralmente “travolto” il nostro, fin troppo fragile, sistema nazionale d’asilo.
[pubblicato il 09/03/2022]