Nel nostro paese si è a lungo dibattuto su come stabilizzare il sistema politico, e specie gli esecutivi. Le soluzioni adottate sono state soprattutto incentrate su tentativi più o meno riusciti di importare sistemi bipolari con forti dosi di maggioritario. Invano si è tentato, però, di ottenere da queste riforme il “governo la sera stessa delle elezioni”, “il governo di legislatura” e la “fine del trasformismo”. Fra le evidenze di questo insuccesso possiamo addurre che la migrazione fra i poli e i gruppi parlamentari dei singoli eletti, quasi inesistente rarità nella “prima repubblica”, è decollata a livelli inarginabili. Con pregiudizio sia dei “poli”, sia dei governi, e dunque della stabilità. Forse un eccesso di politologia elettorale ha pregiudicato la corretta visione dei rimedi, fra cui il fatto che le riforme dovrebbero riguardare il funzionamento dei parlamenti più che la demonizzazione del sistema proporzionale. La protezione dei gruppi parlamentari eletti da una troppo facile costituzione di gruppi parlamentari non eletti, oltre che la “fiducia costruttiva”, permette al sistema tedesco lunghissime trattative fra i partiti, ben lungi dal “governo la sera stessa delle elezioni”, senza pregiudicare la stabilità. Ma esistono altre possibilità, come il cosiddetto “parlamentarismo negativo” in vigore nei paesi nordici. Di cosa si tratta?
Per comprendere il PARLAMENTARISMO NEGATIVO NORDICO è utile questa frase del presidente del Riksdag svedese, Anders Norlen, che recentemente ha dichiarato risolta una crisi di governo determinatasi la settimana precedente con le seguenti parole:
“101 hanno votato sí, 173 hanno votato no, 75 non hanno votato. Poiché meno della metà del Riksdag ha votato no, è approvata la proposta di nominare Magdalena Andersson ministro di Stato di Svezia...”.
La dichiarazione ci può apparire paradossale, poiché in apparente contrasto con il principio di maggioranza, ma ovviamente non è così. Piuttosto, il principio di maggioranza richiesto è quello della volontà di sfiduciare il governo, che palesemente a Stoccolma in questa recentissima occasione non si è manifestata.
In sostanza, dunque, il parlamentarismo negativo non richiede, per eleggere o confermare un governo, una maggioranza dei seggi o dei presenti in aula, ma che non vi sia una maggioranza contraria. Ad esempio, l’articolo 15 della costituzione danese del 1953 dichiara che è decaduto quel primo ministro il quale riceve un voto di sfiducia della maggioranza del Folketing; ma non prescrive che debba esservi una maggioranza palesemente a favore. Questo, peraltro, ci dice che esistono varianti, anche interne ai paesi nordici. In Svezia per la sfiducia serve una pura e semplice maggioranza contraria dei seggi. In Danimarca, Finlandia e Norvegia invece occorre che tale maggioranza si esprima in connessione con una mozione di sfiducia, il che può rappresentare un dispositivo di stabilizzazione ulteriore. D’altra parte, gli svedesi adottano una regola riguardo alle scadenze elettorali molto rigida: le elezioni del Riksdag devono comunque svolgersi a scadenza prevista ogni quattro anni, anche se nessuna maggioranza parlamentare “non contraria” o favorevole venisse trovata. In sostanza, se il governo di Magdalena Andersson fosse stato abbattuto e si fosse ricorso alle urne, poi si sarebbe lo stesso votato di nuovo alla scadenza designata costituzionalmente, cioè nell’autunno del 2022. È un fatto che la eventualità di favorire una elezione poco utile (poco in grado di spostare davvero gli equilibri) e che quindi pochi elettori avrebbero capito, è stato uno degli argomenti di molte deputate e deputati per giustificare il loro esprimersi “non contrari”. Da parte loro, i socialdemocratici di Magdalena Andersson hanno addotto lo stesso argomento per governare anche in queste condizioni proibitive. Questi principi e procedure esprimono un’idea di democrazia parlamentare particolarmente flessibile e complessa, ma anche particolarmente integrale: il Riksdag, il Folketing o lo Storting, cioè, sono particolarmente “creativi” (in realtà sovrani) rispetto alla tipologia di governi proponibili: ce ne sono stati (benché più raramente che altrove) di maggioranza vera e propria, di quasi-maggioranza (cioè con partiti socialdemocratici vicini a disporne da soli, ma bisognosi per insediarsi o continuare a governare di partiti comunisti o post-comunisti “non contrari”, ovvero non disposti a votare insieme ai “borghesi”,). Ce ne sono stati anche di estrema minoranza, cosa a cui si avvicina, come abbiamo visto sopra, l’esecutivo socialdemocratico di Magdalena Andersson. Insomma: in Scandinavia è particolarmente chiaro che sono i parlamenti eletti a decidere sui governi, non il momento elettorale in quanto tale.
Si potrebbe continuare a lungo, ma limitiamoci ad alcune brevi considerazioni. Proprio poiché il momento elettorale è, più ancora che in altre democrazie funzionanti con il sistema proporzionale, nettamente la elezione del Parlamento, non del governo, emerge e si afferma il costume del riconoscimento del governo, e di una trattativa parlamentare relativamente “leale”. Ciò (ed è un paradosso solo apparente) deriva dal fatto che un governo è legittimo (cioè ha la maggioranza della non-ostilità parlamentare) anche se è di gran lunga minoranza elettorale.
Ne discende una considerazione finale: pur se con una saggia soglia di sbarramento (del 2% in Danimarca, del 4% in Norvegia e Svezia), il momento elettorale, distintamente da quello parlamentare, serve a eleggere le rappresentanze sociali, ideologiche e di classe (storicamente: i ceti agrari o costieri nei partiti “di Centro” in Svezia e Norvegia, il lavoro dipendente sindacalizzato e operaio nella socialdemocrazia, le professioni e l’alta burocrazia civile e militare nei Conservatori) che poi trattano in Parlamento. Senza retorica delegittimante verso governi che sono “minoranza nel Paese”. Anche da questa importante premessa è discesa la costruzione di welfare avanzati, e di sistemi competitivi a bassa disuguaglianza: cioè riconoscere che, a prescindere dalla forza maggioritaria dei governi, in parlamento avviene un confronto di classe. Perciò è importante fornire a tale confronto i presupposti anche istituzionali, collocandolo all’interno della democrazia (anche quando è aspro) anziché negarlo, o all’estremo opposto concepirlo come guerra di classe.
Ma qui andiamo forse troppo oltre. Limitiamoci semplicemente a comprendere che la stabilità può essere cercata ed ottenuta in modi diversi da quelli su cui ci siamo lungamente ed invero inefficacemente concentrati.
Paolo Borioni