Come cambia il mestiere dello storico al tempo del Corona virus
EDITORIALE
di Guido Melis
Come scriveremo, negli anni prossimi, la storia di questo periodo di pandemia? Come misureremo ciò che resterà di vecchio e quello che, passata la tempesta, sarà inesorabilmente cambiato, a cominciare – nel nostro caso – dalle istituzioni? E soprattutto quanto l’esperienza che stiamo vivendo, collettiva e personale, cambierà il nostro modo di leggere la storia?
Tenterò, in queste poche righe, di riempire le pagine bianche di un ideale block notes. Come si dice, a futura memoria.
Più Stato ma anche più pluralità di Stati
La grande crisi nella quale siamo immersi ripropone ovunque un tema che solo qualche anno fa, agli inizi del nuovo secolo, ci poteva sembrare archiviato in nome delle sorti magnifiche e progressive delle autonomie territoriali: il ruolo centrale assunto nelle società contemporanee dalle istituzioni statali. Ma insieme – non sembri un paradosso – evidenzia quello delle grandi organizzazioni sovranazionali. La contrapposizione frontale e irriducibile dell’epoca pre-crisi, globalismo/sovranismo, anche se non archiviata e anzi ancora potenzialmente viva, appartiene tuttavia sempre di più al passato pre-epidemia. Sulla scena agiscono adesso insieme, e spesso concordemente, attori nazionali (i singoli Stati, ma anche le istituzioni minori che vi sono comprese, come nel caso italiano le Regioni) e al tempo stesso grandi network mondiali, pubblici e spesso privati (ma con funzioni e poteri che ci riguardano tutti). La ricerca scientifica assume ad esempio dimensioni necessariamente ultranazionali, non ha confini, come del resto non ne ha avuto in passato. Ma multinazionale è anche la produzione e l’impiego dei vaccini, sebbene si stia sviluppando una discussione sulla loro proprietà intellettuale e relativo sfruttamento economico. Il controllo dei contagi, le limitazioni ai confini contrattate tra i vari Paesi, i passaporti sanitari, le regole della circolazione delle persone e dei beni sono sempre più gestite sul piano dei rapporti internazionali. Grandi organizzazioni (come per prima quella mondiale della sanità) dettano regole, prescrivono modalità e tempi a difesa della salute, impongono standard cui i governi nazionali si adeguano; altrettanto succede per la ripresa economica del post-pandemia. La ripresa economica pure non ha confini: è europea o in certi casi addirittura mondiale, investe paesi sviluppati e sottosviluppati, riguarda interi continenti senza più distinzioni; il motore finanziario solo in parte dipende dagli Stati nazionali.
Più Stato nazionale, dunque, ma anche più interconnessione ultranazionale. Il dibattito riapertosi sul keynesismo (in Italia anche grazie alla opportuna riedizione della Teoria generale curata da Giorgio La Malfa) evidenzia posizioni estreme come il ritorno allo Stato imprenditore, una nuova Iri, ma al tempo stesso, nelle sue espressioni più equilibrate, rivaluta la temperata azione dei poteri pubblici a correzione degli animal spirits del capitalismo finanziario rampante e senza confini nazionali.
Il potere invisibile di chi controlla la salute
Grandi poteri anche non pubblici determinano le sorti del mondo. Lo spiegava già nel 2012 (edizione inglese, 2013 quella italiana) un illuminante libro di Sabino Cassese, Chi governa il mondo? Quella precoce diagnosi è oggi confermata dai fatti. Spicca in modo evidente il ruolo decisivo delle multinazionali farmaceutiche, regolatrici di fatto della somministrazione dei vaccini (il loro stesso processo produttivo è distribuito in più paesi). Interi continenti ne dipendono. Gruppi di mediatori (o di speculatori?) le corteggiano. Accelerare o rallentare la produzione, orientare la distribuzione verso un’area o un’altra del globo costituisce un potere immenso e quasi discrezionale mai visto prima (lo governano – ma poco – i contratti stipulati con i governi, cioè atti di diritto privato). Si profila così quello che appare come un limite al potere stesso dello Stato e delle organizzazioni ultrastatuali, e questo potere (di vita o di morte per interi continenti) risiede nelle stanze ovattate e lontane da ogni controllo sociale delle grandi corporations del farmaco. Nulla vi possono le istituzioni pubbliche «legali». Emerge dunque un soggetto nuovo, che nell’ambito della storiografia, in particolare di quella istituzionale, abbiamo sinora trascurato, concentrandoci sulle forme tradizionali del potere politico o tutt’al più dedicandoci a rare incursioni nel poco noto universo delle grandi istituzioni industriali e finanziarie. Come assumono le decisioni che riguardano la collettività mondiale questi nuovi padroni della vita e della morte? Chi li dirige, chi li controlla, chi ne determina le strategie in rapporto con le politiche degli Stati? Il tema rimanda più in generale a una storia delle istituzioni (del presente, certo: ma forse anche del passato recente) che tuttora, e non solo in Italia, stenta a decollare come tale, lasciando campo ad altre discipline. Quasi che questo fenomeno di détournement del potere non ci riguardi.
Lo Stato «concentrato»: governi, parlamenti, amministrazioni
I singoli Stati si modificano però anche nella loro articolazione interna: da un anno in qua ovunque, come del resto accaduto sempre nelle grandi guerre mondiali o nelle crisi economiche universali, i poteri degli esecutivi prevalgono su quelli dei parlamenti; l’azione dei governi – pur traducendosi in norme (forse in Italia troppe e troppo confuse) – assume un ritmo incalzante dettato dall’evolversi stesso imprevedibile dell’emergenza. Ciò, in particolare nelle democrazie parlamentari, diminuisce il controllo e ancor di più la partecipazione fattiva alla funzione legislativa propria dei parlamenti, riducendo al minimo la loro influenza sulle decisioni di governo. I governi si rafforzano: si dotano di nuclei centrali a forte componente tecnico-specialistica, concentrando poteri al vertice ed espropriandone molte delle articolazioni secondarie. Ovunque accade quello che successe nella Gran Bretagna di Lloyd George all’epoca della prima guerra mondiale: i senior ministers prevalgono sugli junior ministers; nei consigli dei ministri un cerchio magico di superministri intorno al presidente forma una sorta di comitato di crisi, prevalendo sui titolari dei dicasteri secondari.
Ma anche nei rami più bassi dell’apparato esecutivo avviene qualcosa di nuovo: le amministrazioni stesse vengono investite massicciamente da una richiesta pressante di prestazioni all’insegna del taglio dei tempi e della puntuale determinazione degli obiettivi da raggiungere: da amministrazioni generali e di controllo diventano sempre più amministrazioni dell’emergenza, adibite a specifiche missioni, apparati di risultato. Riemerge il concetto di programmazione, da anni negletto, persino demonizzato: si concepiscono adesso piani di azione distinti in fasi, interventi immediati e di lungo periodo, step, valutazioni in progress, eventuali correzioni di rotta in itinere. L’Europa stessa fissa obiettivi, modalità, tempistiche ai quali gli Stati membri sono tenuti a uniformarsi, pena l’esclusione dalle risorse finanziarie loro assegnate. C’è una regìa a Bruxelles, e a Roma (ma anche a Berlino o a Parigi) ci si deve adeguare.
Tutto ciò investe in modo nuovo l’amministrazione (anzi le amministrazioni, comprese quelle delle Regioni e degli enti locali, nonché la vasta pletora dei soggetti autonomi – pubblici o privati – detentori di fatto di funzioni pubbliche). Il «vincolo europeo», come accaduto in altri fasi storiche dell’Italia contemporanea (ne fu condizionata persino la formazione dell’Italia unita nell’azione di Cavour) impone con urgenza la ristrutturazione radicale dei modelli organizzativi gerarchici ereditati dal passato, delle modalità di azione obsolete e dispersive della nostra burocrazia, della stessa qualità del personale a cominciare da quello dirigente. La crisi insomma pone all’ordine del giorno una strutturale riforma amministrativa e questa volta non la affida più solo alla buona volontà della classe politica italiana (giustamente diffidandone) ma la sottopone a un insieme di avvisatori, controlli, verifiche periodiche affidate alla vigilanza europea.
Probabilmente ciò richiederà uno sforzo interpretativo nuovo da parte della storiografia istituzionale a cominciare dalla impostazione di ricerche sovranazionali e a livello continentale; non solo nel livello (già oggi parzialmente coperto) della comparazione tra Paesi, ma in quello assai più impegnativo della dimensione europea della riforma, dei nessi tra i diversi modelli storici e le tradizioni dei vari soggetti istituzionali che vi sono coinvolti. Si apre anche qui ai nostri studi una «nuova frontiera».
Chi comanda in caso di pandemia? Decidere nella pluralità della rete
Al tempo stesso la crisi in atto produce più centralismo. La sua simultaneità (il virus, si dice, non conosce confini) richiede risposte unitarie, rapide, unidirezionali, decise; e monitoraggi costanti dei processi così messi in moto. Ciò contrasta profondamente in Italia con la natura reticolare e «quasi federale» delle istituzioni distribuite su più livelli nel territorio e con il pulviscolo delle responsabilità decentrate che ne deriva. La polemica nata sui limiti del sistema regionalistico (per la scelta dei governi di non ricorrere agli strumenti di centralizzazione pure previsti dalla Costituzione e dalle puntuali previsioni della legge sanitaria) sta innescando una richiesta diffusa di «ricentralizzazione» delle decisioni. Forse sarà impossibile darvi risposta, data la ormai ultradecennale esperienza della sanità «divisa» tra Stato e Regioni, ma comunque la richiesta che viene dalla realtà dei fatti è significativa.
Chi comanda in caso di pandemia? A questa domanda bisognerà pure rispondere, ed è evidente che non lo si potrà fare se non eliminando l’attuale confusione di poteri.
Come si sono formati questi nodi apparentemente inestricabili? Quali ideologie condivise li hanno generati e alimentati? Piero Bassetti, uno dei protagonisti della fase costituente del regionalismo italiano degli anni settanta, ha celebrato l’anniversario della Regione Lombardia con un onesto bilancio, nel quale – pur rivendicando la sua fedeltà all’autonomismo – non ha trascurato di porre in evidenza le cause profonde dello stallo, per non dire della crisi delle Regioni: come spesso accaduto nella nostra storia delle istituzioni, un ente nato per rovesciare il modello burocratico dello Stato centrale, e anzi per provocarne «per contagio» la riforma, ha finito per restare invece esso stesso «contagiato», riproducendo i due vizi capitali dello Stato: la burocratizzazione degli apparati amministrativi, la crisi profonda di quelli politico-rappresentativi. Ciò non significa che le Regioni si debbano oggi eliminare, tutt’altro: vanno semmai riformate, messe in grado di governare, sostenute le più deboli dallo Stato, costrette le più forti a collaborare nella Conferenza delle regioni anch’essa riformata; soprattutto sottoposte a valutazione costante, come dovrebbe essere per tutte le istituzioni pubbliche, a cominciare da un Ministero della sanità che anch’esso, per la sua parte, non esce dalla prova esattamente con un voto di sufficienza.
Di tutto ciò dovrebbe occuparsi anche la storiografia, cui spetterebbe ricostruire il contesto del recente passato e i fattori della crisi del regionalismo italiano. Ma una storiografia delle Regioni a statuto ordinario in Italia non c’è. Non esiste (salvo casi rarissimi) una ricerca basata su documentazione originaria (del resto gli archivi delle Regioni versano per lo più in una condizione penosa); né disponiamo di grandi raccolte di dati su legislazione, modelli organizzativi, personale, attività. La pandemia ha avuto, tra i tanti aspetti tragici e dolorosi, almeno questo effetto positivo: ha messo in risalto che il re è nudo. Il disordinato protagonismo dei cosiddetti «governatori» (come impropriamente vengono chiamati) non solo in conflitto con lo Stato ma spesso anche in contrasto tra di loro, secondo ispirazioni che sono apparse brutalmente politiche, cioè partitiche, costituisce un segnale d’allarme che non potrà non essere considerato. Forse è giunto il momento che una storiografia delle istituzioni libera dai condizionamenti ideologici del passato si misuri con questo del resto suo tradizionale banco di prova. E che nasca una nuova stagione di studi equilibratamente critici sulla storia delle Regioni.
Le comunità «murate» e il compito dello storico
Alla generale concentrazione dei poteri nel tempo presente fa pendant la rivalsa del «locale», del «familiare», dell’«individuale». È l’effetto anche psicologico del lungo lockdown, che ha isolato le persone, riaggregato forzatamente i nuclei familiari (giovani e vecchi) e riscritto la dimensione della vita domestica come da anni più non avveniva (si mangiava fuori, al lavoro, nell’improvvisato lunch della pausa d’ufficio coi colleghi: ora ritorna il pranzo in famiglia, la cena in comune). Ha rafforzato gli intrecci parentali e letteralmente «murato» le comunità di individui restringendole in casa, nei quartieri metropolitani o nella dimensione ristretta delle piccole città e dei centri minori. La diminuzione drastica degli spostamenti esterni dovuta all’epidemia ha agito come un fattore di catalizzazione verso l’interno.
Questo elemento, che definirò di ritorno alle radici, ma sapendo quanto vi sia in questo «ritorno a Itaca» di regressivo (si legga Maurizio Bettini, Radici. Tradizioni, identità, memoria), agirà (già agisce oggi) in contraddizione con gli altri precedentemente elencati; e rappresenterà (rappresenta sin da ora) un dato del quale non si potrà prescindere. Paradossalmente l’epidemia universale sta rafforzando i vincoli identitari della comunità; ma non è solo questo: incide anche sulla psicologia collettiva e individuale, produce insicurezza, incute nell’intimità delle persone un senso diffuso di minaccia imminente (mai nella società contemporanea del dopoguerra la possibilità della morte era stata tanto presente), finisce per incidere nell’identità di gruppo e in quella individuale. Meraviglia (o forse non tanto) che nella Babele del cosiddetto discorso politico questo elemento non trovi nessuno spazio, quasi che si trattasse di qualcosa di irrilevante. Eppure noi storici per primi dovremmo sapere quanti suicidi comportò, a pace conclusa, la prima guerra mondiale; come nelle statistiche del disagio e delle patologie psichiatriche del dopoguerra incisero gli anni del conflitto e il dramma collettivo della «morte della Patria»; come sempre, nella storia del mondo, eventi traumatici come l’attuale lasciano strascichi non facilmente apprezzabili ma tuttavia rilevanti: nelle modalità del rapportarsi gli uni con gli altri, prima di tutto. Siamo interessati a questa dimensione, noi storici delle istituzioni? Pongo la domanda pensando a quelli di noi (molti, e autorevoli) che già si dedicano a studiare fenomeni del passato ascrivibili a questa problematica.
Come cambia la ricerca storica
Il sistema della ricerca e quello – più in generale – della formazione si stanno evolvendo. Anche in questo caso la crisi innesca nel mondo una serie di potenti stimoli al ripensamento dell’organizzazione del sapere. Ciò concerne naturalmente il problema capitale della scienza e dei suoi fini; ma anche – più prosaicamente – l’articolazione e i contenuti dell’intera impalcatura scolastica in tutti i cicli (per lo meno dei paesi europei), la struttura e il metodo degli insegnamenti, il riequilibrio tra le discipline e la caduta delle artificiali barriere oggi tra di loro esistenti, lo sviluppo della ricerca universitaria e la sua sempre maggiore apertura alle tecnologie. Un immenso riordino globale delle conoscenze e un loro sviluppo verso nuove frontiere si prospetta a chi governa e governerà domani.
Cosa ha a che fare la storia, e specificamente quella delle istituzioni, con questa rivoluzione culturale? Apparentemente poco, se si considera la storia come mera ricostruzione del passato e lo storico solo come un frequentatore erudito di vecchie carte. Moltissimo se invece si interpreta e si pratica il mestiere dello storico come una continua risposta alle domande che pone il presente.
Servirà, probabilmente, una storiografia in parte nuova: più sensibile alle tematiche intranazionali o almeno ai loro riflessi su quelle nazionali; all’incidenza delle grandi crisi sugli assetti e anche sulla articolazione interne del potere; alla dialettica tra culture apparentemente divise; ai contagi e ai prestiti tra sistemi istituzionali. Una sensibilità dello storico differente; un sapersi interrogare più approfondito; una percezione di segnali sinora poco studiati.
Si è detto delle fonti, delle loro nuove modalità di produzione, della loro disponibilità anche al di fuori dei luoghi tradizionalmente deputati a custodirle, a ordinarle, a porle in consultazione. Occorre aggiungere che la natura stessa delle fonti va rapidamente cambiando: non solo il documento digitale, ma la fonte sonora e visiva (fissa e in movimento), l’uso dell’intervista non solo nel tradizionale campo della storia delle classi subalterne ma anche in quello vasto dei ceti dirigenti e dei colletti bianchi, lo studio dell’immagine e dei profondi cambiamenti della comunicazione pubblica, quella del linguaggio delle istituzioni. Sotto questi aspetti si sono tentati in questi ultimi anni molti esperimenti, si sono aperti laboratori. Ma forse bisognerà andare oltre, verso una concezione diversa della fonte stessa, per coglierne la poliedricità e polivalenza semantica; e anche verso la sistematica interconnessione di fonti di natura diversa. Si apre sotto questo profilo un campo di grande interesse per gli storici delle istituzioni: a patto che essi rinuncino a chiudersi nella nicchia protetta del loro sapere specifico e si aprano alla contaminazione con altri saperi, storici e non.
Ma questo è un discorso che facciamo da anni, e che certo avremo modo di riprendere ancora negli anni futuri.
Cessata finalmente la pandemia, amiamo dire, nulla sarà più eguale a prima: quante volte, nella retorica un po’ banale dei media, non abbiamo sentito ripetere come un refrain questa frase? Ricordo di averla sentita rilanciare dai media già nei primi giorni del marzo 2020, quando ancora poco si sapeva e molto si ignorava di ciò che stava avvenendo.
Tuttavia probabilmente c’è del vero. Anche il mestiere dello storico, e di quello delle istituzioni in modo particolare, non sarà più lo stesso. Heri dicebamus scrisse Benedetto Croce alla caduta del fascismo: non fu così; non tutto quello che si diceva ieri fu ripreso in quell’oggi e nel domani di allora. Così, probabilmente, accadrà anche a noi; ma se così sarà, allora è davvero il caso di aprire tra di noi una discussione seria sulle conseguenze che ne deriveranno sulla produzione storiografica e in particolare – giacché è di questo che stiamo parlando – sul nostro personale lavoro: ognuno nel suo ambito, nella nostra quotidiana attività di ricerca.